Il Quirinale tira un sospiro di sollievo

Nicola Zingaretti illustra la sua richiesta di “discontinuità” nel Governo e nella composizione della squadra, per un esecutivo di “svolta” rispetto ai 14 mesi dell’era gialloverde, dal chiaro impianto progressista. Luigi Di Maio, invece, pur esplicitando, la volontà di un Governo col Pd, partito nominato per la prima volta, alla Vetrata pronuncia parole che, come al solito, segnano una presa di distanza dell’operazione, come quelle su “destra e sinistra che non esistono più”, o il suo orgoglioso “non rinnego quanto fatto in questo anno”. E, soprattutto tiene aperta la questione del suo ruolo politico e personale. Rivelare che ha ricevuto e ha rinunciato alla proposta arrivata dalla Lega di fare il premier di un nuovo governo gialloverde, altro non è che un modo per dire che cotanto sacrificio non può non essere tenuto in considerazione. Perché sarebbe davvero ingiusto e umiliante non affidare l’incarico di vicepremier a uno che poteva andare a palazzo Chigi e non lo ha fatto.

Nel corso dei colloqui col capo dello Stato, l’argomento “vicepremier” non è stato oggetto delle conversazioni, anche perché, se qualcuno lo avesse affrontato in maniera esplicita, sarebbe stato bruscamente stoppato, non essendo quello il luogo per sbrogliare la matassa. Né il capo dello Stato è l’interlocutore cui rivolgersi per questo genere di problemi. Così come non è stato affrontato l’altra questione che ha suscitato una ridda di voci, retro-pensieri e interpretazioni, ovvero il voto sulla piattaforma Rousseau, a consultazioni finite e quando sarà in via di composizione la squadra e il programma. E se venisse bocciato il tutto? E se fosse un sistema per mettere sub iudice, attraverso uno strumento parlamentare, l’intero percorso istituzionale? Non sembra che al Quirinale vivano con angoscia l’evento, in fondo ci sono partiti che fanno le direzioni classiche e altri che hanno diversi strumenti di confronto interno, chiamiamolo così. Ed è presumibile piuttosto che il quesito aiuterà  a far digerire l’accordo a una base piuttosto perplessa. Difficile che sarà chiesto un polemico “siete favorevoli a spartirvi le poltrone col ’partito di Bibbiano?”, più probabile un quesito tipo “siete favorevoli a continuare, per realizzare i nostri obiettivi, a un nuovo governo Conte?”.

Ecco, l’indicazione di Conte e quelle parole pronunciate alla vetrata anche da Di Maio sulla volontà di un “accordo politico col Pd” sono sufficienti a far tirare a Mattarella un sospiro di sollievo. Perché comunque si è innescato un processo politico su basi nuove, quantomeno sulla carta. Conte, questo è il punto, è il premier in pectore di un governo di coalizione, cui spetta il compito di interpretare il suo ruolo previsto dalla Costituzione, ossia di essere non il garante di un contratto ma il “responsabile” della “politica generale del governo”. Un cambio politico e culturale non di poco conto.

È su queste basi che si svilupperà nei prossimi giorni in modo più ordinato la discussione sui ministri. E se è vero che non è chiaro come sarà risolto il problema dei vicepremier o del vicepremier unico – è possibile anche che alla fine non ce ne sarà nessuno – è chiaro siamo a un “volta-pagina” della storia. E toccherà a Conte il compito di prendere in mano la situazione. Non è scontato l’esito. E sul terreno del governo si misurerà la qualità dell’operazione: se cioè sarà, come è sembrato in questi giorni, una zattera di naufraghi delle esperienze precedenti, tra chi è stato al governo con Salvini e chi con Renzi o se sarà il terreno di un nuovo inizio e di un progetto di costruzione politica più ambiziosa. Che sancisca una discontinuità interna ai partiti per agevolare un nuovo percorso comune. È la tesi che in serata Beppe Grillo affida un post, suggerendo un governo di personalità fuori dalla politica, per dimostrare che “le poltrone non valgono nulla”. Il che consentirebbe a Zingaretti di sviluppare lo stesso ragionamento che pure ha in mente. La suggestione dura il tempo di una telefonata con Luigi Di Maio, prontamente resa pubblica, in cui si fa sapere che quello di Grillo è un “paradosso”, ma che “Di Maio è il capo, dunque spetta a lui decidere la squadra”. Il che fa capire il livello di tensione dentro i Cinque stelle su un’operazione che, a cascata, sta mettendo in discussione un assetto consolidato di leadership e di potere. L’incarico all’ex premier dell’era gialloverde è l’unico dato acquisito. Qualcosa nasce, cosa si vedrà.

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