La Brexit colpirà l’export italiano?
Per i Paesi esportatori del resto dell’Unione la questione si farebbe spinosa, in questo caso. E ciò vale anche per l’Italia. I cui commerci hanno una relazione ambivalente con la Brexit. A marzo la necessità di distributori e produttori britannici di fare scorta di beni e semilavorati in previsione dei problemi futuri ha portato a un’impennata dell’export italiano verso le isole britanniche: il +32% dei settori delle autovetture e dell’abbigliamento e il raddoppio dei volumi nella farmaceutica, dove si è arrivati in solo mese a 200 milioni di vendite, ha trainato l’export italiano oltre Manica. In futuro, però potremmo assistere al rovescio della medaglia.
Il centro studi di Confindustria, sulla base di serie storiche, ha recentemente individuato nel settore delle bevande alcoliche e dell’agroalimentare i comparti più a rischio in caso di Brexit senza accordo. Nel primo settore, fa notare l’Agi, il Regno Unito attrae il 12,2% dell’export italiano complessivo, ovvero circa 1,1 miliardi di dollari a prezzi 2017, e il rischio di dazi fino al 32% è concreto; nel secondo, la quota è del 7,8% ma si rischiano dazi ancora più alti, fino al 35% dei latticini, nel caso in cui il Regno Unito non approvi leggi ad hoc per arginare questi problemi.
Massimiliano Giansanti, Presidente di Confagricoltura, ha sottolineato che “in aggiunta alla scontata contrazione delle esportazioni Ue (circa 40 miliardi di euro l’anno) sul mercato britannico, il recesso senza regole del Regno Unito può aprire un buco nel bilancio dell’Unione, a danno della tempestiva e completa esecuzione dei programmi di spesa”, colpendo fortemente l’agricoltura esportatrice di Paesi come l’Italia. E tra i produttori agricoli, in particolare, è scattato l’allarme quando a giugno è stata registrata una contrazione su base annuale del 2,4% delle esportazioni del settore, come fa notare Coldiretti in una sua nota.
Per l’Italia, tuttavia, è bene evitare qualsiasi effetto panico. In primo luogo perchè il “no deal” è ancora scongiurabile. In secondo luogo, perchè non è detto che in caso di sua concretizzazione il governo britannico imponga, dall’1 novembre, la chiusura delle frontiere al commercio. Infine, perchè le economie italiana e britannica sono sufficientemente interdipendenti da rendere possibile per Roma di beneficiare di un’attenzione speciale che porti la Gran Bretagna a non spingersi sino al braccio di ferro su settori tanto importanti quanto quelli agroalimentari. Il Regno Unito, del resto, importa circa il 50% del suo consumo nel settore, e l’Italia può far valere la relazione sistemica tra i due Paesi, in particolare l’unione della borsa di Londra con Piazza Affari, per strappare concessioni favorevoli e evitare i dazi. Del resto in campo finanziario la Brexit potrebbe rafforzare l’Italia, attraverso Milano: opportunità e rischi, in ogni processo politico, si evolvono parallelamente. E questo vale anche per una Brexit che è ancora troppo prematuro definita abbandonata al destino del “no deal”.
INSIDEOVER
IL GIORNALE
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