I numeri del Pd. L’azionista di minoranza

Quando, infine, divenne Pd, fu il partito-guida del governo di centrosinistra dal 2013 al 2018, anche in questo caso con tre diversi premier (Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni).
Stavolta no. Stavolta, se il tentativo di Conte andrà in porto, all’interno della coalizione il più grande partito della sinistra italiana si troverà in minoranza. Perché alle elezioni politiche del giugno 2018, il Movimento 5 Stelle ha ottenuto il 32,68% dei voti e il centrosinistra a guida Pd si è fermato al 22,86%. Percentuali che impongono al Partito democratico un cambio di passo, quasi una capriola culturale: come interpreterà l’inedito ruolo di secundus inter pares, che richiede il giusto equilibrio tra legittimo orgoglio e inevitabili compromessi? Il polverone delle schermaglie iniziali, che sempre caratterizzano la nascita di un governo se non altro per il gioco complicato delle poltrone, non lascia intravvedere, per ora, segni di discontinuità. Nicola Zingaretti, tanto dopo gli incontri con il capo dello Stato quanto dopo quelli con il presidente del Consiglio incaricato, ha parlato più da leader che da socio di minoranza. Ci sta. La storia è storia. Non si può cancellare di colpo. Ma i numeri sono numeri. E (anche) in politica, alla lunga, pesano.

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