I politici di oggi sono oltre il trasformismo: sono senza radici

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La possibilità e la trappola

Un’occasione per uscire dalla cupa stagione salviniana. Ma anche una nuova rinuncia a vincere con le idee  e dentro la società

Comunque la crisi si compia, tuttavia, la lezione che ce ne viene è, a mio avviso, di somma importanza. Sotto le maschere più o meno patetiche o grottesche dei suoi protagonisti si è giocato un dramma tremendamente serio. Altro che semplice crisi di un governo e trattative per costruirne un altro.

Aspetti fondamentali dell’azione politica nel nostro Paese e del modo più in generale in cui questa viene intesa sono venuti, direi brutalmente, alla luce. Anzitutto, è evidente che la “visione del mondo” ormai quasi naturalmente condivisa è quella per cui politica è l’arte dell’assoluto trasformismo. In lontani decenni ciò veniva denunciato come uno dei suoi mali. Ora viene accettato senza colpo ferire, anzi: i suoi più spregiudicati interpreti sono ritenuti i politici più intelligenti e abili.

È un machiavellismo da stenterelli, è evidente, un machiavellismo senza virtù e senza fini, ma la sua debolezza, per così dire, teorica non ne inficia per nulla il valore pratico. Come è potuto accadere, nel giro di una generazione, che senza colpo ferire e senza vergogna si potesse invocare l’alleanza di chi si era sfiduciato il giorno prima, che coloro che avevano condiviso tutto il pessimo di una precedente stagione finita rovinosamente pretendessero guidare quella successiva, o coloro che avevano sparato contro Caio lavorassero poi, senza cenno autocritico, per un’intesa con lo stesso?

E tutto ciò, appunto, senza dover rendere conto a nessuno e, anzi, potendo continuare a dire che si lavora per il bene della Patria, con spirito di sacrificio e alto senso di responsabilità. Come è potuto accadere un tale trionfo del trasformismo? È questa categoria che non regge più. Trasformismo significa passare per opportunità o calcolo da una collocazione politica a un’altra, trapiantarsi altrove. Oggi non vi è alcuna radice. I “politici” si collocano in uno spazio sostanzialmente omogeneo in tutti i suoi punti, e “giustamente” perciò l’opinione pubblica non avverte nulla di scandaloso nelle loro giravolte. La costituzione di questo spazio non ammette, in linea di principio, nessun “corpo” di riferimento: partiti, sindacati, rappresentanze autonome limitano la libera circolazione al suo interno di merci come di idee e di uomini.

Di questa destrutturazione radicale dello spazio politico i 5 Stelle in Italia sono stati coerente, quanto forse incosciente, espressione e perciò non poteva mancare il loro appuntamento con i manager del potere, il vasto mondo delle competenze a disposizione, capaci di costruire in quello spazio omogeneo e vuoto rotte in grado di farlo, il potere acquisito, durare quanto più a lungo possibile. Non importa nulla con chi.

Ne seguono alcune conseguenze di grande rilievo. Sulla forma del contratto per stabilire un’alleanza politica è stato anche ironizzato, ma a torto: si tratta di una innovazione che deriva logicamente da quanto appena detto. Lo spazio post-politico diventa quello stesso del diritto privato. Non più partiti, ma individui “liberi” siedono al tavolo delle trattative e stabiliscono accordi che soddisfino i contraenti. Se partiti, sindacati ecc. non debbono più esistere, la divinizzazione del Contratto anche nella sfera politica risulta inevitabile. Qualsiasi prospettiva strategica si contrae, come in uno spasmo, al tempo brevissimo dell’utilità privata. E di nuovo sarà il manager a imporsi: è infatti soltanto la tecnica, la gestione, l’amministrazione che può contare qualcosa nello spazio politico così contratto. L’opinione pubblica avverte tutto ciò e premia il tecnico, almeno fino a quando questi operi in tale veste e si vanti del suo non essere “un politico”, mentre sempre più vede nel politico destrutturato un inutile fardello.

Questa crisi segna anche il punto culminante dell’onda lunga della crisi dell’istituto parlamentare. O entra in gioco un disegno radicale di riforma, o celebriamone pure il funerale – funerale che potrebbe durare anche cento anni. Le correnti demagogico-populistiche che tutti hanno inseguito negli ultimi decenni non potevano portare altrove, ma mai così drammaticamente come in questa fase è emersa l’impotenza del Parlamento rispetto a logiche privatistiche di gestione del potere.

Tutto l’impianto dei rapporti tra esecutivo e legislativo, tra potere centrale e Regioni e Enti Locali, tra potere politico e funzioni autonome dello Stato, va finalmente riformato, se non vogliamo che dalla crisi della democrazia rappresentativa nelle forme che finora abbiamo conosciuto si passi alla fine della stessa democrazia in un regime di contrattazioni tra poteri economici, finanziari, mediatici che di volta in volta assumono la figura di questa o quella “loggia”, di questo o quel cerchio magico, di questo o quel tecnico-manager. Sempre più è questo il gioco cui assistiamo e ad esso l’opinione pubblica sembra ormai quasi assuefatta. Sarà soltanto con una lunga lotta culturale e politica che la situazione potrà cambiare, non certo fuggendo il confronto aperto con chi l’ha voluta e la difende, né certo cambiando in commedia qualche attore.

L’ESPRESSO

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