Dazi: quanto pesa sull’Italia la guerra Usa-Cina e la minaccia all’Europa
Cosa esportiamo negli Usa
L’Italia vende negli Usa quasi 3 miliardi di euro in prodotti in metallo, pari al 5,5% del nostro export totale nel settore siderurgico e affini. Donald Trump ha deciso di mettere nuovi dazi per tutti (tra il 10 e il 25%), Europa compresa, a partire dal primo giugno del 2018. L’Ue naturalmente ha risposto con una ritorsione di pari entità, e non solo su tubi e laminati, ma ha piazzato un’aliquota fino al 25% anche sui prodotti simbolo del made in Usa: dai jeans Levi’s alle moto Harley Davidson.
Per quel che riguarda acciaio e alluminio l’Italia non è molto esposta: a fine 2018 abbiamo esportato in Usa quasi 900 milioni di prodotti soggetti ai nuovi dazi (stime CsC). Se facciamo i conti oggi su questi prodotti, vediamo che la quota esportata dall’Italia si è addirittura rafforzata: il 2,1% delle importazioni americane di acciaio e alluminio proviene dall’Italia. A giugno 2018 era sotto il 2%. C’è da dire che abbiamo abbassato un po’ i prezzi. Forse proprio per compensare l’aggravio dovuto ai dazi.
Chi soffre di più: automobili e cibo
Decisamente più pesante sarebbe l’impatto su automobili e agroalimentare. I mezzi di trasporto valgono 9 miliardi, macchinari e impianti arrivano a 7,9 miliardi. L’applicazione di dazi alle auto di marca europea è stata rimandata a novembre, insieme alla «lista nera» delle specialità alimentari, dove l’export vale 4 miliardi di euro. Secondo Coldiretti il bene più colpito potrebbe essere il vino (dal Prosecco al Marsala), che è anche prodotto alimentare italiano più venduto negli States: 1, 5 miliardi di esportazioni nel 2018. Ma ci sono anche olio di oliva, il Pecorino Romano, dove gli Usa rappresentano circa i 2/3 del totale export; mentre il Grana Padano e il Parmigiano hanno in America il secondo mercato di riferimento dopo la Germania. A rischio anche pasta, agrumi, marmellate, acqua minerale, superalcolici e alcune varietà di pesce. Finché Trump non deciderà l’aliquota è difficile quantificare gli effetti.
La guerra dei dazi impoverisce tutti
I legami tra Italia e Stati Uniti però non si esauriscono negli scambi diretti. Prendiamo ad esempio la catena globale del valore del nostro settore automotive. L’Italia è specializzata nella produzione di parti e componenti di elevata qualità per automobili. Nel 2017 le case tedesche hanno acquistato 4,1 miliardi di componenti da fornitori italiani. Le automobili tedesche, piene di pezzi di alta precisione fatti in Italia, vengono poi esportate negli Usa. Questo significa che l’export automobilistico italiano verso gli Usa, pari al 15-18%, diventa oltre il 33% se si considera il Made in Italy del settore che arriva sul mercato americano non solo attraverso la Germania. Quindi se diventa troppo caro per un americano acquistare un’auto tedesca, ne risentono anche le nostre imprese. Lo stesso discorso vale per altri paesi dell’Unione o extra Ue che acquistano e poi vendono prodotti con dentro tecnologia o manufatti di origine italiana. Una guerra globale fatta con i dazi andrebbe a modificare queste «catene» con effetti a cascata e imprevedibili, proprio perché un terzo del valore delle esportazioni globali è generato in un Paese diverso da quello del produttore finale del bene (dati CsC).
Braccio di ferro Usa-Cina: vantaggi per l’Italia?
Se tra Pechino e gli Stati Uniti scoppia una guerra totale, l’Italia può «sostituire» con i suoi prodotti quelli caricati dai dazi nei due Paesi? Secondo Prometeia l’effetto in entrambi i mercati potrebbe valere per l’Italia – teoricamente – 10 miliardi di dollari, il 2% dell’export nazionale nel 2018. Meccanica, moda e arredo/edilizia sarebbero i principali beneficiari sul mercato Usa se non ci fossero più concorrenti cinesi. A Pechino, invece, si aggiungerebbero anche metallo, chimica e gomma, che verrebbero avvantaggiati dallo spiazzamento dei prodotti americani «daziati». Nella realtà, i vantaggi stanno quasi a zero, poiché l’Italia non può competere con i prezzi cinesi. L’artigiano italiano vende scarpe a 100 dollari, mentre la Cina le piazza a dieci. Quindi levare dalla circolazione le calzature cinesi da poco prezzo non allarga il mercato per il prodotto italiano, che esaudisce una domanda americana di lusso e risente poco dei dazi. Sul mercato cinese invece potremmo guadagnare qualche cosa sul fronte dell’arredamento, dove il nostro export è simile a quello statunitense, ma non negli atri settori perché vendiamo prodotti diversi.
Le barriere non tariffarie sono cresciute prima di Trump
Il livello medio mondiale dei dazi sui manufatti, tra il 2001 e il 2017, è sceso dal 9% al 7% (Ice-Prometeia, novembre 2018). Una tendenza che Trump ora sta mettendo in discussione. Nello stesso periodo però sono cresciute le barriere non tariffarie. Parliamo di licenze, normative tecniche, regolamentazioni fito-sanitarie e così via. Si stima che il 77% del commercio mondiale sia sottoposto a queste limitazioni. Per l’Italia è l’agro-alimentare che sopporta circa il 40% delle misure non tariffarie sull’export tricolore (Osservatorio Accredia, maggio 2019). Dal 2010 a oggi sono stati approvati oltre 3.000 interventi limitativi delle importazioni di merci, di cui 180 introdotti dall’Italia e quasi 500 dagli Stati Uniti.
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