Una strana euforia attorno al governo
Stavolta la partita è tutta da giocare. E non solo perché i ceti produttivi del Nord la seguono con scetticismo. Il campo di gioco è l’Europa. La vera rottura nella vecchia maggioranza non è stata sulla Tav ma sulla commissione guidata da Ursula von der Leyen, con i grillini che hanno votato a favore e i leghisti contro.
Mentre i 5 Stelle passavano dai Gilet Gialli a Macron, Salvini scegliendo i falsi amici di Visegrad sbagliava tutto quello che poteva sbagliare. Eppure il suo consenso è lì, quasi intatto. Pensare che l’Europa sia pronta a concedere all’Italia qualsiasi cosa, anche fare altri debiti, sarebbe ingenuo. E non solo perché fare altri debiti — magari per finanziare l’estensione del reddito di cittadinanza — non è certo nell’interesse nazionale. Pure nel 2011 la Merkel, Sarkozy, Obama e i mercati guardavano con favore all’avvento di un nuovo governo in Italia. Eppure non fu una passeggiata.
Rispetto ad allora il contesto è mutato. Non c’è una bufera finanziaria in corso. La Germania sembra essersi convinta che l’Europa non uscirà dalla crisi senza la politica espansiva che l’America ha scelto da tempo. In mezzo ci sono stati gli anni di Draghi, con la Lagarde che annuncia di volersi muovere sulla stessa rotta. Però l’economia italiana è ferma. Il Paese cresce poco e male, nonostante la resistenza dei suoi imprenditori e dei suoi lavoratori. L’insicurezza legata alla globalizzazione, il risentimento per la perdita di sovranità, l’insofferenza per le migrazioni incontrollate non sono state sanate miracolosamente dall’autogol di Salvini, dalla faticosa trattativa tra Pd e 5 Stelle, dal plebiscito di Rousseau e dalla fiducia che il nuovo governo riceverà all’inizio della prossima settimana, per il sollievo di deputati e senatori.
«Giuseppi» Conte ha già saputo guadagnarsi un credito personale in Europa. Non c’è dubbio che le istituzioni internazionali lo seguiranno con favore. Ma questo non basta. L’approvazione di Berlino e di Bruxelles può diventare un’arma di propaganda per la destra di Salvini e di Giorgia Meloni. Già in passato governi virtuosi, animati da una sincera vena riformista, si sono rivelati motori del populismo.
In questi anni i 5 Stelle sono molto cambiati. Casaleggio non c’è più. La metamorfosi di Grillo è impressionante. Di Maio e Di Battista escono ridimensionati. Eppure proprio per questo lo spirito ribelle e antisistema che ha segnato le ultime tornate elettorali può riprendere a spirare più vigoroso di prima. Il banco di prova è imminente: la legge di bilancio. Se il governo non manterrà le generose promesse di assistenzialismo al Sud, raccoglierà dissenso e rabbia. Ma se per mantenere quelle promesse aumenterà la pressione fiscale al Nord, la reazione sarà anche peggiore.
Conte si muove su un sentiero stretto. Finora ha dimostrato notevoli capacità di mediazione. Ha saputo accattivarsi la simpatia della Merkel e di Trump, che tra loro si detestano. Lunedì però non si presenterà al Parlamento e al Paese come un mediatore, ma come un leader. Già l’altro ieri, elencando la squadra (non eccelsa) dei ministri, ha esordito dicendo: «Sarò affiancato da…». Un uomo di cui nessuno sino al giugno scorso conosceva il volto o la voce si è caricato sulle spalle una responsabilità molto grande. Il Pd non l’ha affiancato con i suoi leader, ma con le seconde e terze file. Aver negato i «pieni poteri» a Salvini non è un obiettivo di poco conto. Ma se il governo non rimetterà in moto il Paese, avrà soltanto guadagnato tempo. Allora non basteranno le congratulazioni dell’Europa, un tweet di Trump e forse neanche una nuova legge proporzionale per allontanare la tempesta.
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