La fiducia al governo: Conte fa l’elogio di mitezza e sobrietà. Poi le urla scuotono la Camera
E meno male che all’esordio Giuseppe Conte aveva tirato in ballo un altro Giuseppe, Saragat, che alla seduta inaugurale dell’Assemblea costituente aveva ammonito «Fate che il volto di questa Repubblica sia un volto umano» ricordando che «la democrazia non è soltanto un rapporto fra maggioranza e minoranza» ma anche «di rapporti fra uomo e uomo. Dove questi rapporti sono umani, la democrazia esiste; dove sono inumani, essa non è che la maschera di una nuova tirannide». Se è così, andiamo bene…
Il presidente del Consiglio, par di capire, aveva fatto una scommessa: contrapporre alle urla della probabile baraonda in piazza della destra una relazione dai toni il più possibile garbati, soffici, sussurrati («Ma gli hanno abbassato il microfono?» «Deve avere un problema alle tonsille») con qualche spennellata di miele. Al punto che appena ha fatto cenno al suo proposito di fare dell’Italia «una vera e propria smart nation» c’era chi si dava di gomito: «Ha detto smart?» «Me pare d’ave’ capito smorta…».
Certo, tra tutti i punti elencati in un’ora e mezza buona di un programma ricchissimo, dalla precedenza agli asili nido dove «azzerare totalmente le rette per la frequenza» (voce fuori campo: «In Lombardia sono già azzerate») alla riduzione del numero dei parlamentari «nel primo calendario utile» ma «affiancata da un percorso volto a incrementare le garanzie costituzionali», da una maggiore attenzione per la disabilità fino «al rafforzamento delle regole europee per l’etichettatura e la tracciabilità degli alimenti», qualcosa ha dimenticato.
Vuoti di memoria non marginali. Mai le parole burocrati, burocrazia e burocratico. Mai sbarco, sbarchi o barconi. Mai porti, mai chiusura porti. Mai sovranismo o sovranisti. Mai costi o mai tagli. Come se si trattasse di temi da avvolgere in cartocci di parole più morbide: «Nel quadro delle riforme istituzionali è intenzione del governo completare il processo che possa condurre a un’autonomia differenziata, che abbiamo definito giusta e cooperativa. È un progetto di autonomia che deve salvaguardare il principio di coesione nazionale e di solidarietà…». Da scolpire nel marmo la promessa più spericolata: «Io e tutti i miei ministri prendiamo il solenne impegno, oggi, davanti a voi, a curare le parole, ad adoperare un lessico più consono, più rispettoso». Fulminea la reazione dei banchi a destra: «Ma se ti hanno messo lì quelli del Vaffaday!».
Fatto sta che più il premier tentava d’esser persuasivo, moderato, conciliante («Vogliamo volgerci alle spalle il frastuono dei proclami inutili, delle dichiarazioni bellicose e roboanti») più la piazza davanti alla Camera ribolliva di esasperazione, disprezzo e odio di quanti urlavano contro «lo scippo del voto». E mentre Daniela Santanchè girava fra i più arrabbiati («La porta di Montecitorio è chiusa, la piazza è piena, questa è la differenza fra chi sta chiuso nel palazzo e chi sta fuori!») raccogliendo consensi col suo stupefacente cappello da O.K. Corral bianco-rosso-verde e un gruppo di fascisti testimoniava la propria estraneità partitica facendo il saluto romano, Giorgia Meloni tuonava: «La cosa scandalosa è che questi qua sanno benissimo che stanno facendo una cosa che gli italiani non vogliono, e siccome sanno di non poter vincere le elezioni, le rubano». E pure lei: «È il nostro vaffa day al M5S».
Ma Salvini? Dov’è Salvini? Eccolo. Stanco ma bellicoso. Gli si fionda addosso una bionda vistosa: selfie! Una rossa: selfie! Un energumeno rapato: selfie! Lui sorride e si presta. Luca Morisi, il cervello della «Bestia» (il copyright è suo), lancia nel firmamento social un tweet guerresco: «Vita vera, Italia autentica contro l’Italietta del Pd asserragliata nei palazzi! #gosalvinigo». Lui, il Truce, ridacchia di Di Maio: «Passare nell’arco d’una settimana dal ministero del Lavoro al ministero degli Esteri, o sei un genio o… Però non giudico, vedremo i fatti. Io non ce l’avrei mai fatta». Ma se gli aveva offerto dieci giorni fa Palazzo Chigi! Roba vecchia. Passata.
Il democratico Michele Anzaldi, quello che si lagnava del Tg3 troppo poco renziano, denuncia un servizio del Tg2: «Il giornalista apre il servizio parlando di una protesta “contro il governo della poltrona, degli inciuci e dei potentati europei” come se fossero parole sue e non di Lega e Fdi. Questa è informazione?». I camerati di Forza Nuova, CasaPound e altri gruppi dell’estrema destra denunciano Facebook perché, uno dopo l’altro, avrebbe chiuso i loro siti perché pieni di odio. Coincidenza: proprio il giorno della manifestazione a Roma! Chissà da chi l’han saputo… «La polizia politica di Zuckerberg vuole impedire che ci sia opposizione al governo di estrema sinistra e Bruxelles!».
Fatto è che l’odio che spacca l’Aula si rovescia in piazza e quello che sgorga nella piazza si rovescia in Aula. Allagando i banchi della destra («Vergogna! Vergogna! Vergogna!» «Poltrone! Poltrone! Poltrone!» «Elezioni! Elezioni! Elezioni!») per dilagare verso quelli grillini e sinistrorsi. «Il professor Di Maio…», maramaldeggia Francesco Lollobrigida di Fratelli d’Italia… «Ministro! Ministro Di Maio!», lo corregge in veste di presidente dell’assemblea Ettore Rosato. E l’altro, cerimonioso: «Il Ministro Professor Di Maio…»
L’ultimo petardo però, che fa saltar la Santabarbara, lo getta nell’Aula già incandescente lo stesso Giuseppe Conte. Il quale, dopo esser stato tempestato di insulti («Venduto! Venduto!») rende a Salvini e ai suoi pan per focaccia, tirando in ballo il giuramento del governo gialloverde: «Mentre il M5s è stato coerente al proprio programma voi dimostrate di essere coerenti alle vostre convenienze elettorali. Avete sbagliato giuramento perché i ministri giurarono di tutelare l’interesse esclusivo della nazione, non del partito».
E ripartono i fuochi artificiali. Con Giorgia Meloni che spara a zero contro il premier chiedendogli «come può stare con Salvini e il giorno dopo con la Boldrini» e il leghista Riccardo Molinari che irride: «La prendevano in giro come un piccolo avvocato di provincia e ridevano del suo curriculum e improvvisamente, oplà, grazie all’Europa che diceva di voler cambiare, diventa uno statista europeo!». E via così. Fino a ora tarda. Quando termina finalmente la conta: 343 sì, 263 no. Fiducia approvata. Tregua. Almeno fino alla nuova disfida in Senato. Ma il difficile, probabilmente, comincia ora.
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