Bce, il consiglio è spaccato sul taglio dei tassi di interesse. Il francese De Galhau ago della bilancia

L’ultimo intervento pubblico sul tema, il governatore della Banca centrale francese l’ha rilasciato all’inizio di luglio e si sostanziò in un capolavoro di equilibrismo, limitandosi a dichiarare che “non devono esserci dubbi rispetto alla capacità della Bce di aumentare gli stimoli”. Tutto e niente, di fatto. Anche perché, tanto per restare sotto coperta, si affrettò anche a sottolineare come “comunque, la politica del Board dovrebbe essere guidata dai dati economici e non dalle aspettative di mercato”. Pensiero, quest’ultimo che non più tardi della scorsa settimana è stato ribadito anche dal vice-presidente dell’Eurotower, Luis de Guindos. I traders, ad oggi, prezzano un taglio di 17 punti base, mentre alcuni – come RBC Capital Markets – azzardano subito -20 basis points sul tasso di deposito (oggi al -0,40%) e con un’ulteriore discesa in negativo nell’ultima riunione dell’anno. E al netto della contrarietà di Jens Weidmann, Sabine Lautenschlaeger e Klaas Knot per un immediato nuovo round di Qe, è proprio la questione dei tassi negativi a bloccare la discussione e creare il dissidio maggiore, anche al netto dei 2,6 trilioni di euro di bond acquistati dal 2015 a fine 2018 e sostanziatisi in aspettative di inflazione all’1%, metà esatta del target statutario. Lo stesso Mario Draghi, nell’ultima conferenza stampa, aveva sottolineato come la discesa sottozero avesse un impatto negativo sulla profittabilità bancaria, tema che andava approfondito in sede di elaborazione strategica. Una “promessa” che Ubs ha reso in questo grafico

Fonte: Ubs

nel quale emerge plasticamente come proprio gli istituti di credito tedeschi e francesi sarebbero i principali beneficiari dell’implementazione del meccanismo cosiddetto di tiering, di fatto uno sconto o un rinvio del pagamento dell’interesse dovuto proprio alla Bce per il deposito overnight delle riserve in eccesso. Un risparmio che garantirebbe liquidità alle banche, vero e proprio ossigeno in un momento in cui – come mostra questo altro grafico:

Fonte: Bloomberg

i medesimi istituti del fu “asse renano” sono seduti su un vero e proprio stock record di depositi. Ma le criticità strettamente legate al sistema creditizio non sono finite, fornendo giocoforza argomenti all’opposizione tedesca e olandese a un ulteriore calo dei tassi. Questi due grafici:

Fonte: Bloomberg

Fonte: Deutsche Bank

mostrano come gli istituti tedeschi abbiano visto quasi quadruplicare su base annua gli accantonamenti previsionali per perdite legate a prestiti nel primo trimestre del 2019, dato ovviamente connesso strettamente con il rallentamento economico e con il suo acuirsi a causa del conflitto commerciale fra Usa e Cina. Il secondo grafico appare ancora più preoccupante, poiché a fronte di condizioni finanziarie mai così favorevoli sulla carta, le mosse finora messe in campo dalla Bce non hanno ottenuto il risultato di far crescere la fornitura creditizia, fattispecie che a fronte dell’incidenza negativa dei tassi di interesse sotto zero sulla profittabilità sembrano spianare la strada a un credit crunch in piena regola. In piena stagione di rallentamento macro: di fatto, il peggior combinato possibile. Ed ecco che gli ultimi due grafici:

Fonte: Bloomberg

Fonte: Goldman Sachs

pongono questa prospettiva sotto un’altra luce: non solo le emissioni obbligazionarie nell’eurozona la scorsa settimana hanno toccato il record assoluto per il periodo raggiungendo 1 trilione di euro di controvalore ma sono proprio le obbligazioni europee quelle che in questa ultima finestra temporale stanno recitando la parte del leone nella creazione ulteriore di debito con rendimento negativo. Sintomo che, a fronte di costi di finanziamento mai così bassi, le aziende europee stanno tentando la strada di un by-pass dei canali bancari tradizionali per ottenere credito, operando sul mercato. Un trend che, visti i volumi in atto, difficilmente potrà però proseguire, poiché anche la fame di rendimento dei fondi pensione – i più attivi negli acquisti di debito con rendimento negativo, nonostante la volatilità a breve implicita, poiché meno soggetti a variazioni dei valori di VaR (Value At Risk) nell’iscrizione a bilancio degli assets – raggiungerà prima o poi un limite.

Ammesso e non concesso che, in caso di mosse della Fed a sostegno diretto di Wall Street, una big rotation verso l’azionario dopo la grande paura recessiva e la fuga verso il reddito fisso da rifugio, non inneschi un pericoloso aumento generalizzato degli spread. I quali, ad oggi, vedono tutti i debiti sovrani dell’eurozona in area di assoluta tranquillità, addirittura con il decennale greco all’1,57%, tanto che il primo ministro, Kyriakos Mitsotakis, ha avanzato la proposta di anticipare il pagamento dei prestito contratto con l’Fmi: “Il nostro intento è quello di recuperare al più presto l’investment grade, al fine di finanziarci a tassi ancora più bassi. Nei prossimi tre anni la Grecia la sarà una piacevole sorpresa per l’eurozona“. Insomma, nessuna necessità di comprimere i rendimenti, come invece accaduto dopo lo shock del 2011. Anzi. Quindi, paradossalmente, altre frecce all’arco di chi non solo vorrebbe evitare nuovi acquisti di debito sovrano ma, addirittura, rivedere anche il meccanismo di re-investimento titoli cambiato da Mario Draghi non più tardi dello scorso novembre, implicitamente in chiave di scudo per i rendimenti di Italia, Spagna e Portogallo. Magari, spostando l’attenzione – e la potenza di fuoco – sul reparto corporate, operando una clamorosa deroga al criterio di capital key rispetto proprio ai rendimenti negativi.

E se il silente boicottaggio tedesco si sostanzia anche in uscite come quelle della Suddeutsche Zeitung – degna del mitico gol di testa di Zoff su calcio d’angolo della telecronaca di Fantozzi -, a detta della quale all’interno del board si starebbe addirittura discutendo sulle modalità di intervento diretto sul mercato azionario in caso di emergenza, a tagliare la testa al toro ci pensa Gilles Moec, capo economista di Axa a Londra: “Se i tedeschi non vogliono un grosso pacchetto di intervento e i francesi si mostrano timidi, allora questa comincia a diventare una situazione problematica per Draghi. La mia impressione è che i falchi, mano a mano che si avvicina il 31 ottobre, comincino davvero a non poterne più. E per questo alcune colombe potrebbero porsi un quesito: ovvero, ne vale la pena?”. Una cosa pare certa: rimandare il grosso delle decisioni all’ultimo board presieduto da Mario Draghi, quello del 24 ottobre, potrebbe davvero risultare il classico atteggiamento di chi fa il furbo una volta di più delle carte che ha in mano. E i bluff, spesso costano cari.

BUSINESS INSIDER

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