Ian Buruma: «Attenti, il populismo non è morto. E vi spiego perché»
Il populismo è una conseguenza del globalismo economico, della tecnologia e delle istituzioni?
«Per spiegare il successo del populismo oggi dobbiamo tornare indietro
ai primi anni Novanta, ancor meglio al 1989, quando inizia la fine
dell’impero sovietico. Durante la guerra fredda tutte le democrazie
occidentali, compresi gli Stati Uniti, hanno dovuto conciliare il
capitalismo con qualche forma di egualitarismo, di redistribuzione della
ricchezza, perché dovevano offrire un’alternativa al comunismo. Nel
1989 inizia in Occidente un trionfalismo eccessivo e si è pensato che
non era più necessario difendere le socialdemocrazie».
Colpa di Reagan e della Thatcher?
«No, la responsabilità non è solo loro. È anche di Bill Clinton, di
Tony Blair, di quei leader della cosiddetta “terza via” che sulla
politica economica non erano poi troppo differenti da Reagan e Thatcher.
Quello che non hanno capito era che mettendo il mercato al centro della
società e della vita quotidiana, molta gente si sarebbe sentita
abbandonata, lasciata indietro».
Negli anni di Blair e Clinton la ricchezza complessiva è aumentata.
«Vero, ma la maggioranza della gente, quello che viene definito
“popolo”, non vuole solo diventare più ricco o avere più potere. Hanno
bisogno di sentirsi parte della comunità, di sapere che c’è qualcuno che
si prende cura di te. Io credo che in Occidente questo si sia perduto
di vista. Il neo-liberalismo è diventato terreno comune sia per i
partiti conservatori che per quelli socialdemocratici – negli Stati
Uniti sia tra i repubblicani che tra i democratici – ha contribuito non
solo al crollo del 2008 ma soprattutto all’idea che la politica non si
occupasse più dei bisogni della gente comune, ma solo di banche,
banchieri e interessi più o meno privati. Negli Usa Trump lo ha capito
molto bene e ne ha raccolto i frutti».
E Boris Johnson?
«L’ho definito un tribuno della plebe, nel senso romano del termine.
L’idea che il premier britannico, che ha studiato a Eton e Oxford e ha
fatto parte della élite tutta la vita, sia un uomo del popolo è
stravagante. Quello che sta facendo non è illecito, ma è fuori dalla
tradizione dei conservatori».
Anche Trump è difficile considerarlo uomo del popolo.
«Vero, ma Trump, che è un ricco miliardario non fa parte di quel tipo
di élite, non ha il livello di istruzione di Johnson. Tra Stati Uniti e
Gran Bretagna, che a volte vengono accomunate impropriamente, c’è poi
una differenza sostanziale. La Gran Bretagna è una democrazia
parlamentare e in una democrazia parlamentare il “popolo” non esiste e
tantomeno esistono una volontà o una voce popolare. I politici sono
scelti per rappresentare interessi differenti, nella speranza che
trovino una soluzione grazie a compromessi. E in una democrazia liberale
anche l’opinione pubblica è più una forma di rappresentanza che
un’espressione diretta. E poi c’è una certa differenza tra populismo
europeo e populismo americano».
Quale?
«Tradizionalmente negli Stati Uniti il populismo è stato più di
sinistra che di destra, basti pensare al Governatore della Louisiana
Huey Long, che alla fine degli anni Venti diventò un leader populista
per le sue battaglie contro le banche e i banchieri. In Europa è stato
soprattutto di destra, con il fascismo che negli anni Venti-Trenta ha
preso forme diverse in diversi paesi. Le tradizioni e la cultura dei
diversi paesi contano, in Francia il Front National ha come riferimento
storico Vichy, la chiesa cattolica tradizionalista, negli Stati Uniti il
populismo, quello di destra, ha a che fare soprattutto con la razza,
peculiarità della storia americana. Un aspetto del successo di Trump è
il rifiuto verso la presidenza Obama, che per molti è il simbolo del
fatto che i bianchi hanno perso i propri privilegi: se un nero può avere
tutti i vantaggi di un’ alta istruzione e può diventare presidente
degli Stati Uniti significa che i bianchi poveri, o quelli che si
sentono, anche a torto, poveri, sono stati lasciati indietro. E
rivendicano il loro orgoglio di bianchi votando Trump. Ovviamente ci
sono poi cause comuni a Europa e Stati Uniti: la reazione alla crisi del
2008, la sfiducia nelle élite politiche».
Anche crisi e mutazioni della middle class?
«L’uso della parola “middle class” in America è diverso da quello usato
in Europa. In Europa è stata identificata con la borghesia, quella
media, quella piccola, negli Stati Uniti è qualcosa di molto diverso da
una classe benestante, è più una “blue collar class”, una classe
operaia, anche in questo caso diversa dalla tradizionale classe operaia
europea. Come un po’ ovunque è più debole perché l’industria assume meno
persone, perché politicamente è più emarginata, perché la sinistra è
meno forte di quarant’anni fa. Il successo del populismo non si può
ridurre a questo, ma va detto che chi vota per Trump, per la Brexit, per
la Lega, per populisti e demagoghi è accomunata da un sentimento:
quello di avere perso la propria presa sul mondo, che il mondo va verso
soluzioni in cui saranno lasciati indietro o abbandonati. E tutto questo
può avvenire per ragioni economiche, razziali o perché sentono che il
proprio paese non ha più il ruolo o il potere di una volta. La Gran
Bretagna ad esempio vede una Germania da tempo economicamente più forte e
politicamente più importante, gli Usa soffrono la nuova potenza cinese,
l’Europa nel suo complesso si sente più debole. Negli Stati Uniti, ed
anche in Europa, non possiamo però ridurre il populismo a una questione
di classe, perché è interclassista, c’è anche una questione di
territorio, una grande tensione tra città e aree rurali».
Il vero nemico dei populisti sono le “liberal élites”?
«Che per i populisti non sono i ricchi ma chi ha un alto livello di
istruzione, chi studia e lavora nelle università, sono le grandi aziende
hi-tech, il “mainstream media”. Fino a pochi anni avevano potere perché
erano seguiti dall’opinione pubblica, sia in Europa che negli Usa erano
– e sono – a favore dell’immigrazione, contro il razzismo, per le
istituzioni internazionali e un globalismo economico. Oggi quelli che si
sentono “lasciati indietro” ritengono queste élite responsabili di
tutto: del fallimento sugli immigranti, dello strapotere delle banche,
della burocrazia delle istituzioni internazionali, di una crisi
economica anche quando non c’è. Per gli europei la sfiducia nella Ue è
una conseguenza della sfiducia nelle élite: che per anni hanno spiegato
che l’Unione Europea è una buona cosa, che le istituzioni internazionali
fermano ogni possibilità di guerra nel Vecchio Continente e chi non era
d’accordo veniva un po’ troppo facilmente bollato come razzista. Negli
Stati Uniti chi simpatizza per immigranti, per le minoranza non bianche
viene bollato come “traditore” nei confronti di quella che viene
considerata la “real America” ovvero l’America bianca e provinciale».
In Europa il populismo può essere anticamera di un nuovo fascismo?
«Storicamente si può dire che il fascismo è una forma di populismo. L’idea di Mussolini sulla democrazia diretta, la “voce del popolo” che deve essere ascoltato con un plebiscito e che viene identificata con la voce del Duce è un’idea populista. Ma questo non significa affatto che tutti i populisti siano fascisti, visto che esistono anche populismi di sinistra. Oggi è anche difficile definire il fascismo: se vuol dire uno Stato militarizzato, uno Stato corporativo, uomini in uniforme che picchiano gli oppositori nelle strade, milizie armate, questa non è certo la situazione nell’Europa di oggi e nell’America di Trump. Se invece diciamo che il populismo possa portare a qualche forma di nuovo fascismo, sì, questo è sempre possibile. La mia più grande preoccupazione oggi sono gli Stati Uniti, perché è veramente molto pericoloso quando hai un presidente che di fatto incoraggia l’uso della violenza in una pese con così tante armi. Non è del tutto inimmaginabile che se Trump dovesse perdere le elezioni possa gridare – e con lui i suoi milioni di fans – ai brogli elettorali e che qualcuno possa decidere di imbracciare le armi, creando milizie private. Che verrebbero ovviamente stroncate ma che provocherebbero violenze e un danno certo alla democrazia».
L’ESPRESSO
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