Se l’Europa chiude gli occhi

L’uomo forte di Ankara vuole altri soldi, sapendo che l’Europa è disposta a pagare pur di non dover fare i conti con questa umanità. Per questo alza la pressione. Nell’estate i nuovi rifugiati sono almeno 25 mila nelle isole greche e i reticolati che erano stati eretti per loro non li contengono più.

L’Europa non dovrebbe aver bisogno di altro per capire, mentre i segnali arrivano da ogni parte. Il centro di Lampedusa è di nuovo al limite della capienza. La procura di Palermo indaga sulle torture che i migranti subiscono in Libia. Intanto procedendo come sonnambuli, ciascun per sé, i suoi leader assoggettano l’ordine politico europeo all’arbitrio di chiunque abbia un po’ do potere alle loro frontiere. Questi leader naturalmente non sono ciechi e pazzi: ciascuno di loro limita la collaborazione con gli altri, perché ogni guadagno politico di un governo rappresenta un costo per l’altro. In Francia il 63% della popolazione pensa che ci siano «troppi stranieri» (Ipsos/Sopra Steria). Dunque ogni rifugiato trasferito da Lampedusa a Lione per «aiutare l’Italia» potrebbe dar fiato ai nemici del presidente in Francia. Anche Emmanuel Macron ha elezioni locali vicine, a marzo, e presidenziali nel 2022.

È in questo gioco a somma zero — se vinco io, perdi tu — che i cittadini europei vengono sottoposti allo stress di una duplice dissonanza cognitiva. Si raccontano loro storie che palesemente non sono vere, ma si chiede loro di crederci. C’è la promessa di risolvere chiudendo i porti, mentre poi barchette e gommoni approdano più numerosi sulle spiagge. E c’è la promessa di proteggere la «way of life» europea, il nostro stile di vita, al punto da chiamare così il portafoglio del commissario europeo delegato ai rifugiati.

Ma andate un po’ a vederla nel campo di Lesbo, questa «way of life». Sembra un ghetto progettato da un pazzo per assorbire il dolore del mondo di fuori che l’Europa non vuole vedere. Ci sono tre uomini sbarcati in agosto che passano il pomeriggio attorno alla loro tenda, fissata a un olivo L’hanno appena avuta, dopo un mese all’addiaccio. Il più anziano si chiama Najah Khafaji e si muove in sedia a rotelle, senza una gamba. L’ha persa nel 1991 in Kuwait, da ufficiale di Saddam Hussein sotto le bombe americane e la sua foto in divisa, con due gambe e le medaglie al petto, è ancora la cover del suo smartphone. È fuggito dall’Isis del distretto di Babil, l’antica Babilonia, per arrivare in questa babele di profughi e non tornerebbe mai indietro.

Non lontano da lui confabula un gruppo di ragazzi dalle facce d’Asia centrale, quasi mongole. Sono arrivati tre giorni fa, afghani della provincia di Ghazni. Per dormire, il campo per loro ha dato un’unica coperta e un pezzo di strada. Una cicatrice fresca di trenta centimetri attraversa in verticale il petto di uno di loro, ricordo di un’estorsione al padre commerciante. Un altro giace a terra con i segni avanzati di una malattia venerea, ma i dottori sopraffatti dalle urgenze l’hanno giusto invitato a tornare un altro giorno. Il solo che parla un po’ inglese fra loro è un ragazzo di 15 anni, Barakat Mohammadi. In primavera i talebani gli hanno ucciso il padre e perché due suoi fratelli avevano lavorato con gli americani. Lui è partito a piedi per arrivare fino a questo imbuto fra due mondi. «Cosa posso fare adesso?», chiede. «Non ho niente qua». Poco lontano fra gli olivi si aggira un 27 enne di Kinshasa magrissimo, Patrick Mafolo, che si è messo in viaggio perché ha scoperto di avere un tumore ai polmoni. Sperava di curarsi in Europa ma nessuno lo visita. Le condizioni sanitarie sono al limite, scabbia e tubercolosi che possono degenerare epidemie in ogni momento, il cibo è scarso. I farmaci per epatite, malattie renali o per le più banali infezioni non vengono più messi a disposizione dalla sanità pubblica. La Ue sta pagando due milioni al giorno per la spesa corrente, ma non vuole vedere neanche un rendiconto da qui.

Questo è un girone d’inferno del quale i governi europei, fra loro, preferiscono non parlare. Quelli prosperi e sicuri di sé, perché altrimenti rischiano di doversi spartire queste persone. La Grecia, perché ha bisogno di talmente tante concessioni finanziarie, che preferisce dimenticare e far dimenticare. Non vuole che questo posto sia comodo, o si spargerà la voce e ne verranno ancora di più. Del resto questo è il destino delle zone cuscinetto destinate a far sparire coloro che nessuna terra del mondo vuole. Questa è l’ambiguità di luoghi del genere. Si paga per metterli un po’ meglio e mettere così a posto la propria coscienza, ma il guardiano del vostro cancello sarà sempre un altro. Erdogan si propone, se volete, o magari domani allo stesso modo lo farà un signore della guerra libico battendo cassa all’Italia.

Se questa è la realtà, i racconti consolatori non funzionano più. E la cooperazione fra leader non potrà bastare, se resta un gioco a somma zero. Le redistribuzioni devono avvenire fra molti più Paesi, non solo con Francia e Germania. Soprattutto è tempo che un’Europa unita proietti all’esterno il proprio peso e investa almeno in Africa subsahariana per filtrare e prendere controllo dei flussi lì. Oggi, incredibilmente, Bruxelles vi spende in proporzione molto meno di quarant’anni fa. Se l’illusione di ogni Paese è di salvarsi da solo, possiamo solo finire travolti tutti insieme.

CORRIERE.IT

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