Quanto ci costano 1.404 miliardi fermi sui conti correnti
Quelli alle famiglie sono effettivamente cresciuti del 2,5% su base annua. Ma quelli alle imprese sono diminuiti dello 0,4%. E qui emerge il primo sintomo di malessere. Se non si investe con il costo del denaro al minimo storico quando mai lo si farà? Le ragioni sono diverse.
Le regole e le sofferenze
Gli istituti sono frenati negli impieghi dalle regole comunitarie, dal rischio delle sofferenze, dall’esigenza di mantenere i coefficienti di capitale. L’area cosiddetta «non bancabile» dei soggetti economici si è estesa a dismisura. Gli strumenti di finanza alternativa al canale bancario sono poco diffusi, Borsa inclusa. Ma certo vi è anche una componente psicologica legata all’incertezza della congiuntura italiana, all’instabilità politica.
I soldi ci sono, persino troppi. Mancano forse le idee e un po’ di coraggio? O, peggio, una società invecchiata sta perdendo gli animal spirit e preferisce la condizione rinunciataria dei rentier? Da tempo i depositi delle imprese crescono, flusso positivo da tre anni. La preferenza per la liquidità anche qui è sintomo di assenza di alternative e regole certe per programmare. Scelte forse dettate dalle attese di ritorno degli azionisti. O resistenze culturali. Stare fermi sembra non avere negatività. ANALISI
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Il primato del cash
Nell’agosto scorso è stato stabilito, senza che nessuno si sia scomposto, un altro primato. Non triste, soprattutto per i titolari dei conti correnti. Ma nemmeno allegro, per l’insieme dell’economia italiana. La raccolta delle banche, rappresentata dai depositi e dalle obbligazioni, è salita a 1.802,5 miliardi. In crescita, rispetto a un anno prima, del 5,2%. I depositi sono aumentati del 6,6%; le obbligazioni proseguono la loro caduta ormai ininterrotta dal 2012: – 3,3%.
Insomma, anche le famiglie italiane continuano ad avere una spiccata preferenza per la liquidità tenuta, in varie forme, sui conti correnti. Anche se non rendono niente o al massimo intorno all’1% per quelli rimborsabili con preavviso o con durate prestabilite. Nel 2018 – altro paradosso – la liquidità è stata eletta ad asset class, forma d’investimento che non ha deluso se si tiene conto dell’andamento negativo nell’anno del risparmio gestito. Chi non ha fatto nulla e si è tenuto i soldi in banca ha addirittura guadagnato, in termini relativi, senza versare costose commissioni. La classe di investimento euro cash rendeva lo 0,3% a fine 2018.
Nell’agosto scorso l’indice però ha perso lo 0,5%. E qui si apre uno scenario che dovrebbe non inquietare, ma almeno porre qualche interrogativo ai titolari, famiglie e imprese, di depositi. In alcuni Paesi il rendimento dei conti correnti è già negativo. In Italia già succede per quelli interbancari in linea con le disposizioni della Bce. Accadrà presto anche per la clientela minuta che comunque già paga costi di gestione non trascurabili? Risparmio e famiglia
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Noi e gli altri, dalla Germania al Giappone
La passione per i conti correnti non è solo degli italiani che riservano a depositi e strumenti liquidi circa un terzo delle loro attività finanziarie. Accade anche in Germania e Spagna. Il Giappone è addirittura oltre la metà, grazie a lunghi periodi di inflazione schiacciata, ma è un caso particolare. Un paper della Banca d’Italia, a cura di Diego Caprara, Riccardo De Bonis e Luigi Infante ha analizzato le scelte delle famiglie dagli anni ’50 in poi. Nell’immediato Dopoguerra la ricchezza reale era molto più alta di quella finanziaria. La crescita del debito pubblico e l’offerta di titoli a tassi reali positivi ha distratto per lunghi periodi il pubblico da altri impieghi, come la Borsa, la cui capitalizzazione rispetto al prodotto interno lordo è ancora modesta specie se confrontata con i Paesi anglosassoni. LE CONSEGUENZE
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Il rimpianto (inutile) del Welfare
Una volta c’era il cosiddetto Bot people. Oggi molto meno. Le delusioni su titoli di Stato, obbligazioni bancarie (gli scandali hanno avuto la loro parte), hanno rilanciato la scelta della liquidità. Ma c’è un’altra spiegazione. La certezza di poter contare su un sistema pensionistico pubblico o di categoria (primo pilastro), con coefficienti di trasformazione alti (leggi assegni di poco inferiori alle retribuzioni) ha spinto le famiglie a non avere o credere di non avere – come accade in altri Paesi – la necessità di accumulare un risparmio pensionistico. E ciò ha sorretto e giustificato a lungo la scelta della liquidità. La situazione è molto cambiata.
Non così la percezione che le pensioni saranno una percentuale progressivamente inferiore a salari e stipendi. Il ricorso a strumenti di previdenza integrativa o assicurativi (secondo e terzo pilastro) è cresciuto ma non come sarebbe necessario. A un convegno giovedì scorso a Torino, il direttore generale della Banca d’Italia e presidente dell’Ivass, Fabio Panetta, ha spiegato che «nel 2018 gli italiani hanno speso 107 miliardi in giochi e lotterie legali (più del doppio di 10 anni prima). Al confronto, i 17 miliardi di premi del ramo danni-non auto, sempre nel 2018, sono una cifra irrisoria». Il futuro sembra non esistere. Attenti a non giocarselo.
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