M5S, Grillo lascia solo Di Maio: silenzi, post e battute per minare il leader
A prendere il potere furono il figlio Davide e la sua longa manus, l’ex aspirante deputatino che in meno di quattro anni aveva scalato i Cinque Stelle.
Adesso che le poche affinità e le molte divergenze tra il compagno Beppe e il destrorso Luigi si manifestano con cadenza pressoché quotidiana, è bene ricordarli, certi episodi. Perché il passato conta, e torna sempre. Anche in un movimento che ha dimostrato una incredibile capacità di azzerare tutto. Altrimenti non si capisce perché, come avvenuto due giorni fa, se l’attuale ministro degli Esteri dice nero opponendosi a nuove tasse su merendine e biglietti aerei, l’Elevato risponde quasi sempre bianco, postando sul suo blog una ricerca che dimostra quanto inquinino i velivoli commerciali. Non è figlio suo, non lo è mai stato.
Certo, ci sono stati i momenti buoni, le foto opportunity, i reciproci elogi di stampo bolscevico. E Di Maio ci ha anche provato, a simulare empatia tra leader troppo diversi tra loro per piacersi davvero. Se non ci è riuscito, la colpa non è neppure sua. L’oscillazione tra destra e sinistra, tra abbracci e freddezza, tra movimentismo e governismo, risale alle differenze e alla sintesi mai trovata tra i due fondatori. Di Maio vs Grillo è solo la continuazione con altro nome di quell’ambiguità di fondo, che al tempo stesso rappresenta la forza e la debolezza di M5S.
Non è un gioco delle parti, e sta diventando un gioco pericoloso per l’ex delfino. La casella di partenza è stata la furibonda litigata tra Grillo e la coppia Davide Casaleggio-Di Maio, avvenuta all’Hotel Forum la sera prima della presentazione del simbolo di M5S per le elezioni politiche del 2018. Subito dopo, Grillo se ne uscì con un curioso paragone tra il Movimento e i panda, adorabili mammiferi capaci però di nutrirsi dei resti di altri animali. Era il suo modo di anticipare la strategia delle alleanze e di rimarcare il proprio dissenso per quel che sarebbe poi accaduto.
Grillo è sempre stato contrario al matrimonio di interessi con la Lega. Da allora, dopo una breve tregua, ogni giorno ha la sua pena per Luigi Di Maio. La consultazione online sul caso Diciotti è qualcosa «a metà tra il comma 22 e la sindrome di Procuste», una frase irridente. Due giorni dopo, viene trattato come un bambino. «Con Di Maio bisogna avere un po’ di pazienza» dice Grillo. Poi arriva la batosta delle Europee, Matteo Salvini che vola nelle urne e nei sondaggi, e infine la trattativa per il nuovo governo, inaugurata da un «Luigi dovrebbe prendersi una vacanza…», nella quale il recalcitrante Di Maio viene guidato a suon di schiaffoni sul blog.
Il 27 agosto, quando cancella l’incontro previsto con il Pd per via dei dubbi democratici su Giuseppe Conte, Grillo tuona con un post che all’interno di M5S viene letto una violenta reprimenda nei suoi confronti. «Dio mi ha detto, lasciali alla loro Babele». Gli errori commessi da Di Maio sono sotto gli occhi di tutti. Ma niente avviene mai per caso. Neppure le rivolte interne. E senza la strategia della goccia cinese operata da Grillo non esisterebbe la mozione dei senatori che mira a ridimensionare il ruolo dell’attuale capo politico. Pare che i panda genovesi abbiano denti molto aguzzi.
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