I diritti e la morte, se la politica si arrende

di RAFFAELE MARMO

La Corte Costituzionale arriva di nuovo laddove la politica si arrende. Non è la prima volta che accade (e, c’è da giurarci, non sarà l’ultima) che i giudici della Consulta siano chiamati a decidere lungo il confine stringente e delicato della vita e della morte. A decidere, insomma, sulla più eticamente angosciante e irrimediabile delle scelte dell’uomo. 
Un compito tanto alto e tanto terribile sarebbe sostanzialmente di altri, del Parlamento, della politica, delle rappresentanze del popolo. Ma tutti costoro hanno abdicato, in questo come in altri casi, al loro dovere di decisori, perché non hanno avuto il coraggio, la forza e la consapevolezza di assumersi la responsabilità di una indicazione di rotta per il Paese. 
Calcoli di consenso e guerriglie d’aula, polemiche strumentali e scontri ideologici hanno costituito, di volta in volta, alibi e pretesti, per deputati e senatori, per non decidere sul suicidio assistito, come, più in generale, sul fine vita. Sicché la supplenza della Corte è stata sicuramente un atto di responsabile interventismo di fronte a una politica pilatesca. Un atto, per di più, inevitabile e improcrastinabile di fronte al moltiplicarsi delle esigenti richieste di orientamento da parte di una società inquieta e smarrita. 

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