Tumore al seno, i mammografi e gli ospedali da evitare

Rapporto del Ministero: mammografi troppo vecchi

La considerazione che un mammografo con 10 anni e più di vita è troppo vecchio non la fa soltanto chi li produce (e che può avere interesse a venderne di più), ma proviene anche dallo stesso ministero della Salute. Il suo primo censimento sullo stato delle apparecchiature mediche risale al 2002 ed è il frutto del lavoro di due anni di una commissione formata da esperti dell’Associazione italiana di medicina nucleare e radiologia medica, che ha setacciato tutti gli ospedali italiani. La conclusione: «L’obsolescenza delle attrezzature disponibili è un elemento preoccupante. Il 23% dei mammografi censiti supera i 10 anni e il 44% ha oltre 8 anni di età».

Rischio: falsi negativi

Continua il ministero: «Si tratta di apparecchiature la cui utilizzazione, oltre a comportare un’indebita esposizione a quantità oggi non accettabili di radiazioni ionizzanti, rischia di aumentare notevolmente, per la ridotta capacità diagnostica, il numero di false negatività e soprattutto di ritardare il momento diagnostico con implicazioni negative sul piano prognostico per le pazienti, e con rilevanti costi successivi per il servizio sanitario nazionale». In altre parole: se ritardi la diagnosi, quindi l’intervento, diventano più lunghe e invasive le cure, oltre ad aumentare la probabilità di esito finale drammatico. Ed è lo stesso ministero della Salute che indica la necessità di sostituire questi macchinari.

Ultimo censimento: la situazione peggiora

Nel censimento del 2017 i mammografi con più di 10 anni sono diventati il 29,3%. La stima, al contrario di quella di Confindustria, non tiene conto delle differenze tra i due tipi (analogici e digitali). In ogni caso, mettendo insieme le due statistiche, emerge che complessivamente l’obsolescenza dei mammografi nella migliore delle ipotesi è del 30%, che arriva al 40% nella peggiore. Ciò vuol dire: bassa redditività, maggiori costi di manutenzione, oltre al già citato rischio per la vita della paziente, un aumento di possibilità di un intervento chirurgico demolitivo anziché conservativo, e maggiore impatto sulla spesa sanitaria.

I rimborsi uguali per tutti

Ma quali sono le Regioni che non investono sul rinnovo dei macchinari e quali strutture è meglio evitare per la diagnostica? Questa informazione cruciale purtroppo il Ministero non la rivela. Sappiamo invece che il ministero della Salute rimborsa ai centri pubblici o convenzionati mediamente 40 euro per ogni mammografia: che lo strumento usato abbia 15 anni di vita o che sia di ultima generazione. L’unica cosa che possono fare le pazienti, dunque, è informarsi prima di sottoporsi all’esame sul tipo di mammografo utilizzato e scegliere di conseguenza dove rivolgersi.

Intervento demolitivo o conservativo

Sapere dove rivolgersi è fondamentale anche per chi deve sottoporsi all’intervento chirurgico che, come detto, può essere demolitivo (mastectomia, con l’asportazione totale del seno) o conservativo (con l’asportazione della parte del seno che contiene il tumore). La scelta della terapia è legata al tipo e allo stadio del carcinoma, alle condizioni cliniche e psicofisiche della paziente e alla sua età. Nel caso di intervento conservativo può seguire la radioterapia, mentre sia il trattamento conservativo sia il radicale possono essere eventualmente associati alla chemioterapia. Succede, però, che su oltre 37.200 donne operate con interventi conservativi l’anno, in media 2.800 devono ritornare in sala operatoria entro 4 mesi perché il tumore non è stato asportato radicalmente. Anche se l’intervento non è particolarmente complesso rispetto ad altre procedure chirurgiche oncologiche (toracica o intraddominale), il successo dell’operazione è legato alla presenza di un’équipe multidisciplinare che integra le diverse competenze: radiologo chirurgo, patologo, radioterapista, oncologo, psicologo, genetista e riabilitatore.

Dove il rischio di re-intervento è più alto

Il rischio di re-intervento è misurato statisticamente dal Piano nazionale esiti (Pne), elaborato annualmente dall’Agenas (Agenzia Nazionale per i servizi sanitari regionali).

Nelle prime tre strutture in Italia per volume di interventi (Ieo, Humanitas e Istituto nazionale dei Tumori, tutti a Milano), questo rischio è rispettivamente del 3%, 5% e 6%. La media a livello nazionale invece è del 7,5%. I dati, appena pubblicati da Agenas, si riferiscono al 2017. In 45 strutture il rischio è significativamente superiore: fino a 5 volte rispetto alla media. È utile sapere quali sono, e qui i nomi sono disponibili. In cima alla classifica troviamo l’ospedale Salvini di Garbagnate (40%), l’istituto clinico Città di Brescia (31%), e l’ospedale della Valcamonica (31,3%). A metà classifica anche il Campus biomedico di Roma (17%) e l’Istituto di Candiolo-Fondazione del Piemonte per l’oncologia (15%); verso il fondo, il Bellaria di Bologna (12%). Può sembrare strano che tra le 45 strutture su cui c’è un alert ve ne siano molte di grandi dimensioni: in realtà ciò è dovuto al fatto che qui viene effettuato un maggior numero di interventi conservativi, mentre la struttura con pochi interventi, in genere, effettua prevalentemente operazioni demolitive.

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