Internet: come proteggere i dati personali o monetizzarli

La vendita di profili e indagini Antitrust

Ogni singolo profilo può essere venduto più volte, producendo ogni volta un ricavo per un diverso attore di questa filiera globale generata a nostra insaputa. Questa replicabilità rende i nostri profili il bene più scalabile e redditizio. La moltitudine di dispositivi connessi che stanno crescendo in modo esponenziale, alimentati da una potenza computazionale sempre più veloce, consente direttamente ad Amazon, Google, Facebook, Microsoft, Alibaba, Tencent di sfruttare queste miniere di dati, diventando sempre più sofisticati nel controllo delle tecnologie integrate tra web e mobile. Danneggiando la concorrenza su interi mercati, vista la loro posizione dominante. Google ha distorto il mercato in Europa con la piattaforma Adsense per imporre una serie di clausole restrittive nei contratti con i siti web terzi, impedendo ai concorrenti di posizionare le loro pubblicità. Le autorità Antitrust, prima fra tutte quella europea, li stanno multando a suon di miliardi, circa 8 finora.

Come violano la privacy

Le multe scattano anche per violazione della privacy, come è appena successo al colosso di Mountain View in Francia (50 milioni di euro), o ad Amazon, che è sotto la lente in Germania per i dati raccolti dal suo assistente vocale Alexa. La normativa Ue sulla privacy potrebbe colpire anche Facebook, che ha comprato WhatsApp (collegandone gli account in maniera fraudolenta) e ora rischia una multa di due miliardi. Ma le sanzioni si sono mostrate finora inutili: la loro quota cresce fagocitando tutto il resto. L’esempio più noto sulla loro capacità di influenzare il pubblico è lo scandalo Cambridge Analytica. La società di consulenza britannica ha rubato 80 milioni di profili raccolti da un fornitore che aveva effettuato un sondaggio pagando gli intervistati. Profili poi venduti ad una società americana che ha usato le loro informazioni personali disponibili su Facebook per influenzare gli utenti nel sostegno alla candidatura di Donald Trump. Che poi ha vinto. Un caso?

Cosa genera la nostra attività su internet

Ogni volta che acquistiamo in rete un prodotto o un servizio, scarichiamo un video o un software, ci scambiamo foto o twittiamo, navighiamo sul web alla ricerca di risposte strutturate, oppure memorizziamo i nostri contenuti su un cloud, produciamo informazioni che valgono tanti soldi.

Nei prossimi anni anche la nostra impronta, la nostra voce e i nostri occhi saranno oro, sempre di più. Statista stima che il mercato della pubblicità online raggiungerà i 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, quello delle informazioni prodotte dagli oggetti connessi (internet delle cose) i 130 miliardi, e quello dell’intelligenza artificiale i 60 miliardi entro il 2025.

L’Europa ha detto basta

Un limite fra l’informazione che puoi sfruttare a fini pubblicitari e la violazione della privacy lo ha definito il Regolamento europeo Gdpr entrato in vigore a maggio 2018. Funziona così: se per esempio Tim ci chiede il documento di identità per attivare la linea telefonica, siamo obbligati a dire «consento» per ottenere il servizio. La società telefonica però non può vendere il nostro nome al Corriere della Sera per mandarci la promozione dell’abbonamento al quotidiano. Per farlo deve chiedercelo espressamente. Possiamo dire «sì» o «no»: si definisce «consenso espresso». La novità dirompente, e ora in discussione a Bruxelles, sarebbe però un’altra: consentire agli utenti di disporre dei loro dati e autorizzarne l’uso in cambio di una percentuale sui ricavi. Si chiama «ePrivacy» e ci consente di diventare sostanzialmente azionisti dei nostri dati. Una specie di pedaggio autostradale. Si tratta di una battaglia campale di cui sappiamo poco e nulla, se non che l’intera industria hi-tech, da Amazon a Google, da Facebook ad Apple, si è fermamente opposta.

Fuori dal nostro controllo

Parliamo delle informazioni industriali da cui deriva l’80% del valore dell’intera filiera. Un esempio? Prenoto una corsa su Uber. L’applicazione sa dove sto andando, quanto sto pagando e da dove mi muoverò nel caso volessi prenotare un’altra corsa. Non sono informazioni strettamente personali, quindi Uber le vende a terzi, che le elabora, analizza e rivende. Un processo che avviene al di fuori del nostro controllo, e ci esclude deliberatamente dall’opportunità di monetizzazione.

Le alternative per monetizzare

Una delle poche strade percorribili al momento è quella che sta portando testardamente avanti Isabella De Michelis con la sua ErnieApp. Consente agli utenti di eseguire direttamente il «codice» (della funzione che regola i consensi della privacy) sugli applicativi di Google e Facebook in modo che gli utenti possano farsi pagare per non negare i permessi. Si tratta di una prospettiva rovesciata. Non posso farmi pagare per i miei dati? Mi faccio pagare per consentire ad altri di usarli. Weople invece prova a farci guadagnare se ci si iscrive alla sua piattaforma sottoscrivendo un contratto. Ottiene una delega per richiedere i nostri dati alle aziende con cui siamo venuti in contatto, li deposita nel nostro conto personale, li rende anonimi e li fa fruttare sul mercato senza teoricamente vendere l’identità di nessuno. Il 90% del valore generato viene restituito, al netto dei costi di gestione. Weople è stata finanziata anche dal mondo Coop.

Chi protegge la privacy

Se non ne vuoi più sapere però ci sono alternative che si stanno moltiplicando in tutto il mondo: invece di utilizzare gratis Google, con un costo contenuto potresti usare un altro motore di ricerca che mantiene i tuoi dati coperti, come DuckDuckGo, che sta viaggiando al ritmo di quasi 45 milioni di ricerche al giorno e filtra anche le pagine con una eccessiva quantità di pubblicità. Oppure Mozilla e Qwant. Questi browser non impongono registrazioni quando si effettua una ricercar su Internet, non memorizzano indirizzi Ip e usano i cookie solo quando strettamente necessario. Per le email Fastmail. Vimeo per non finire tracciati su Youtube. Open street maps al posto di Google Maps. Perchè il tema è sempre lo stesso: se non paghi per il servizio, il prodotto sei tu.

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