Carlo De Benedetti: «Gedi va risanata. I miei figli non sanno fare gli editori, non amano Repubblica»
Carlo De Benedetti, l’Espresso e la lite con i figli: ragioni, accuse e rancori della saga familiare
di Sergio Bocconi
Vale a dire?
«Portare
le mie azioni, convincendo gli altri azionisti a fare altrettanto, in
una Fondazione. Una Fondazione cui parteciperanno rappresentanti dei
giornalisti, dirigenti del gruppo, personalità della cultura.
L’obiettivo è assicurare un futuro di indipendenza a un pezzo di storia
italiana».
Un pezzo della sua vita, ha detto lei.
«Certo. Ma anche un pezzo importante della vita di questo Paese. Tante cose sono avvenute su Repubblica, e tante cose sono avvenute a causa di Repubblica,
sia sul piano politico che su quello culturale, direi anche civico. Il
gruppo Espresso ha avuto in Italia un ruolo fondamentale. Merita di
essere conservato e gestito. Sono felice di poter dedicare due, tre anni
del mio tempo e della mia vita a rimettere in sesto un’azienda
sconquassata e non gestita. So anche quali sono i limiti di una persona
di 85 anni: da qui lo sbocco di una Fondazione. Sono convinto di
riuscire a persuadere gli altri soci che si tratta di un dovere di
fronte al Paese, che spetta a chi ha avuto l’onore e l’onere di gestire
il gruppo».
Dovrà prima convincere i suoi figli. Ha parlato con loro?
«No. Sarebbe stato inutile, perché non accettano le premesse: riconoscere che non sono capaci di fare questo mestiere».
Sono parole molto dure.
«I
miei figli sanno fare bene altri mestieri. Ma non hanno la passione per
fare gli editori. Non hanno neanche la competenza; ma prima di tutto
non hanno la passione. E senza passione non puoi fare un mestiere così
particolare, artigianale, per il quale occorrono sensibilità, gusto
estetico, cultura, capacità di conduzione di uomini, talento per mettere
insieme un’orchestra e il direttore che la dirige, decidere quale
spartito suonare. I miei figli, in particolare Rodolfo, lo considerano
un business declinante; e non hanno neanche torto. Ma questo significa
considerarlo un mestiere qualsiasi; e invece l’editore non è un mestiere
qualsiasi. La grande ingenuità dei miei figli è continuare da tempo a
cercare un compratore per il gruppo. Una ricerca inutile: in Italia un
compratore non c’è».
Si è parlato di fondi di investimento.
«Io
parlo di editori. Un compratore c’è sempre. Ma il mestiere dell’editore
è talmente difficile e ingrato che, se uno decide di comprare un
oggetto come Repubblica, lo fa per difendere altri interessi: politici o
economici».
Un giornalista che di economia si intende,
Paolo Madron, ha definito la sua un’ «offerta dimostrativa». Cioè
insufficiente. Pensa a un rilancio? A un’Opa?
«Intanto
gli azionisti Cir dovrebbero ringraziarmi per questo regalo piuttosto
consistente: la mia offerta ha fatto aumentare il valore in Borsa del
titolo di oltre il 15%. Un contributo più rilevante di quello che ha
dato l’attuale gestione. Il mercato ha dimostrato che l’azienda, se
gestita non dai miei figli, vale di più. Gestita dai miei figli,
l’azienda vale 23 centesimi ad azione. La pago al prezzo cui hanno
ridotto l’azienda. Perché dovrei pagarla di più? E poi non compro tutto,
ma il 30 per cento. Non è questione di soldi, non voglio fare un
affare. Le ripeto che dopo il rilancio intendo regalare le azioni a una
Fondazione».
Ma il prezzo è basso.
«Lo so anch’io che è basso. Segno che hanno fatto un bel disastro».
Accettare l’offerta costringerebbe la Cir a svalutare la sua quota di Gedi. Si parla di una perdita di 150 milioni.
«La perdita c’è già, non sarebbe determinata da una vendita. Non è dovuta a me; è dovuta a loro».
Un giornale può stare in piedi con una Fondazione?
«In
Italia non è ancora accaduto. Ma in Inghilterra e in Germania esistono
Fondazioni che hanno la proprietà di un giornale. Non propongo un atto
di generosità; propongo un atto di responsabilità. Capisco che i miei
figli non amino il giornale; smettano però di distruggerlo. Si
convincano e convincano gli altri azionisti Cir ad aderire a questo
programma, visto che non si sono dimostrati capaci di gestire, non hanno
idea di come farlo, e si ostinano a cercare un acquirente che non c’è».
Urbano Cairo ha parlato di «mossa romantica».
«E’ un’espressione che ho apprezzato. Mi ha fatto piacere».
Con John Elkann ha parlato?
«Sì. L’ho chiamato. Mi ha ringraziato. Era in viaggio, ci risentiremo per discuterne».
Chi potrebbe presiedere la Fondazione?
«E’
prematuro parlane. Per due o tre anni il presidente lo devo fare io.
Dobbiamo prima lavorare, salvare, investire. Poi decideremo».
Per il nuovo direttore di Repubblica lei ha avuto parole lusinghiere.
«Le confermo. Sono soddisfatto di Carlo Verdelli».
Con Eugenio Scalfari ha parlato?
«No».
Dai giornalisti le sono arrivati segnali?
«Sì.
Di grande soddisfazione. Lei sa quanto sia importante l’atmosfera in
un’azienda editoriale. Un’azienda editoriale non è fatta di carta e
inchiostro; è fatta di persone, idee, passioni. Ecco: ci vuole passione.
E ci vuole qualcuno che te la ispiri. Non è un lavoro impiegatizio. Ci
vogliono coinvolgimento e condivisione».
Benetton, Del Vecchio, ora lei: non è uno strano Paese, quello in cui i vecchi ambiscono a prendere il posto dei giovani?
«Sono singolari coincidenze. Diciamo che c’è molta gente che molla, e c’è poca gente che osa».
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