La ricerca di un’intesa e le alleanze complicate
Se invece decideranno — anche sulla base di quest’ultima considerazione — di procedere uniti, dovranno tener conto di una questione fondamentale. La coalizione di governo antisalviniana è composta da quattro partiti, quello di Zingaretti e quelli di Renzi, Speranza e Di Maio. I primi tre hanno avuto occasioni di governo anche nelle amministrazioni regionali, il M5S soltanto nelle città. Perché i Cinque Stelle accettino di muoversi a sostegno di un candidato del Pd, o di Italia viva o di Leu, che abbia buone possibilità di successo, ad esempio il governatore uscente dell’Emilia Romagna Bonaccini (oppure quelli, con minori chance, di Marche, Toscana, Campania, Calabria, Puglia) sarebbe necessario che la sinistra offrisse pari disponibilità per personalità provenienti dalle file grilline. Altrimenti si dovrebbe andare ogni volta alla ricerca di candidature «civiche» che spesso non offrono garanzia di tenuta né sul piano politico né su quello elettorale. Nessuna formazione può lasciarsi considerare in partenza gregaria delle altre.
Qualora decidessero di procedere assieme, i quattro partiti della coalizione, tutti e quattro, dovrebbero sentirsi obbligati a trovare punti di incontro tra le loro precedenti esperienze per poi cercare candidati che portino voti ma che creino anche tra loro una qualche armonia. E perché ciò accada, l’accordo tra le quattro forze non può che essere globale e preventivo. Perché? Per il fatto che solo trovando un’intesa che valga per tutte (o quasi) le regioni e per tutte (o quasi) le città che andranno al voto, ogni componente della coalizione di governo potrà trovare la motivazione a giocare con impegno l’intera partita. Altrimenti ci sarà sempre qualcuno — ieri in Umbria è stata la volta di Renzi — che non si presenterà all’appuntamento.
Restiamo su Renzi. È chiaro che Italia viva è la componente più recalcitrante ad una sorta di patto stabile con Pd, Leu e M5S: il movimento renziano si è dato come missione quella di intercettare una rilevante parte di elettorato proveniente dal centro e dalla destra. Un’impresa ardua già di per sé. Ma sarebbe ancora più problematica nel caso il senatore di Rignano si alleasse stabilmente con i seguaci di Grillo e con una sinistra peraltro a lui ostile. Tuttavia Renzi resta pur sempre nel governo ed è costretto a puntellare la legislatura, ragion per cui vale la pena per i soci di maggioranza provare a coinvolgerlo anche in sede locale. Chiaro dunque che da adesso in poi a Pd e M5S non sarà sufficiente trovare un’intesa tra loro, ma la dovranno estendere al pur docile partito di Bersani e Speranza e a quello riottoso di Renzi. Missione complicata. In compenso la scissione renziana dovrebbe offrire una formidabile opportunità per la verifica di un teorema assai diffuso in anni recenti tra i politologi di sinistra. Secondo tale teoria, il Pd avrebbe perso un gran numero di elettori rifugiatisi tra i Cinque Stelle o nell’astensione a causa del «deragliamento» del treno riformista (il termine è stato usato dal prodiano Franco Monaco) di cui sarebbe stato «artefice» Matteo Renzi. Turbati dal metaforico incidente ferroviario, tali elettori avrebbero cercato rifugio tra i Cinque Stelle o nell’astensione. Strano, si potrebbe osservare, che quei fuggitivi non abbiano riparato, già alle elezioni del 2018, nelle carrozze di Leu. Ma — si disse all’epoca — quei vagoni erano stati allestiti troppo in fretta per essere in grado di attrarre gli elettori in fuga da Renzi. Ma adesso che Renzi se n’è andato e il partito di cui fu segretario ha ripreso a viaggiare sull’antico binario, dovremmo assistere alla scena di passeggeri che affollano le stazioni nell’ansia di salire sul treno zingarettiano. Sia nelle elezioni politiche (quando verranno) sia in quelle amministrative. A cominciare da subito, dalle stazioni che furono rosse di Perugia, Terni, Orvieto, Todi. Dovesse accadere, per il Pd sarà certamente più agevole trattare in vista delle complicate alleanze di cui si è detto.
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