Una giornata da navigator, interviste e computer lenti
Sono le nove e ventisei quando entra una signora bionda scusandosi del ritardo a profusione. Era attesa fra quattro minuti, alle nove e mezza. Daniela è partita dal suo paese in collina due ore fa per essere certa di farcela. Chiede solo che non si riporti il suo cognome. Ha 46 anni, ma ha iniziato a lavorare da sarta a quattordici e a diciotto era già nella cucina del ristorante di quello che sarebbe diventato il suo ex marito. È disoccupata dal 2013, quando è fallita l’azienda di cui teneva la cucina. Faremo il patto per il lavoro, le dice il navigator. «So come funziona», taglia corto lei. Vorrebbe giusto capire perché il suo reddito di cittadinanza è stato tagliato dopo i primi due mesi, aprile e maggio. È la domanda che fanno tutti i convocati e i navigator non sanno rispondere perché gli importi li vede solo l’Inps, con il quale il centro per l’impiego di Penne condivide un piano in questo palazzo e gli austeri bagni per gli utenti, ma non le banche dati (il ricalcolo dovuto al peso di un sussidio precedente, chissà perché, ha decurtato l’assegno ai disoccupati proprio subito dopo le elezioni europee del 26 maggio).
Sbrigate le formalità, Diego La Torre parte con le domande alla signora Daniela: «Farebbe corsi di formazione?». «Sì, di cucina, mi piace tanto». «Lavorerebbe la domenica? A domicilio? Di notte? Su turni? In part-time?». Daniela farebbe tutto. Giusto la stagionale no perché l’ultima volta le hanno fatto fare dodici ore fino all’alba in una cucina, a quaranta euro. «E notturno no, perché non poi non torno a casa. Il lavoro è questione di bus».
È un classico, da quando Gallo e La Torre hanno iniziato a intervistare disoccupati sei mesi dopo aver vinto il posto da navigator. «I giovani sono rari», fa Gallo. La figura tipica è la madre di mezza età, spesso single, titolo di studio basso, figlia di agricoltori che hanno lasciato una casa impossibile da vendere e impossibile da mantenere, esperienza in negozi o bar, figli minorenni o comunque agli studi. Queste donne sono in trappola. Poiché non lavorano, non possono permettersi un’auto e poiché non l’hanno un’auto, non possono lavorare dove non arriva il bus. Poiché non sono giovani, non possono competere con le ragazze e più il tempo passa dall’ultimo giorno in cui lavorarono, più diventano inoccupabili. Alla fine l’indice di profilazione di Daniela esce altissimo nello schermo del computer, non appena questo si sblocca (Mimmo Parisi, regista del progetto navigator per conto dei 5 stelle, parla di «machine learning» e «artificial intelligence», ma qui il software è di undici anni fa e gennaio Microsoft smette di supportarlo). Un indice alto significa che Daniela è considerata difficile da collocare, ma Diego La Torre ricorre a quella che un po’ è una bugia caritatevole: «C’è un assegno che lei porta in dote – dice alla donna, che in faccia ha già un sorriso amaro -. L’agenzia pubblica o privata che le trova un contratto di almeno sei mesi, avrà come premio un assegno di ricollocazione fra i mille e i cinquemila euro: tanto più alto se il suo indice di profilazione sale».
La realtà è più complicata. E non solo perché per il centro per l’impiego l’incentivo a darsi da fare è pari a zero: l’eventuale premio non spetterebbe né all’addetto che trova lavoro al disoccupato, né al suo ufficio. Va alla regione, nel calderone del bilancio. Così i navigator cercano di restare calmi, precisi, meticolosi, rassicuranti con i disoccupati. Ma il sistema delle politiche attive, visto qui da Penne, sembra la quinta di un western dove dietro alla facciata del saloon c’è poco o nulla. I pilastri del «patto il lavoro» che quasi tutti firmano sarebbero infatti cinque, ma solo uno è in piedi: l’azienda che assume il disoccupato in modo permanente può usare il suo reddito di cittadinanza, fino a esaurimento, per versare i contributi (ma pochi lo sanno); il premio in denaro all’agenzia che trova il posto è bloccato perché, incredibilmente, manca il decreto attuativo; i «progetti di utilità collettiva», nuovi lavori socialmente utili da affidare ai percettori del reddito, non partono perché il decreto ad hoc è appena stato varato e mancano i piani dei comuni; i progetti pubblici di formazione per i disoccupati sono quasi solo sulla carta, per ora; e i navigator come Gallo e La Torre non solo non stanno parlando con le imprese per comprendere le loro esigenze e intermediare fra loro e i disoccupati; non sanno neanche come si fa: i corsi ad hoc per loro non sono iniziati. Per ora i due restano chiusi in ufficio e intervistano, intervistano, intervistano.
Molti navigator sotto sotto sono nervosi per questo: nel loro contratto di «collaborazione» con l’Agenzia per le politiche attive del governo (Anpal Servizi) è scritto che entro fine incarico, fra 18 mesi, devono aver segnalato almeno un’«offerta congrua» a ogni disoccupato. Altrimenti rischiano sanzioni, benché anche quelle per ora restino imprecisate. Ma è soprattutto qualcos’altro che lascia perplesso Francesco Gallo: da Anpal Pescara si raccomanda di far firmare «patti per il lavoro» invece di «trasformare», cioè mandare ai servizi sociali, i tanti senza lavoro da oltre due anni giudicati ormai inoccupabili. Si vuole evitare che i comuni poi li rimandino ai centri per l’impiego, in un eterno rimpallo fra burocrazie. «La norma dice che dopo due anni queste persone hanno bisogno di servizi sociali. Un minimo di formazione giuridica l’ho avuta e so che la legge non andrebbe ignorata», nota Francesco Gallo.
Daniela intanto, tornata a casa dal colloquio, ha altro a cui pensare. Il navigator La Torre le ha detto di iscriversi al sito di Anpal, l’agenzia per il lavoro, «ma è un macello» dice lei. Complicatissimo. «Mi sono potuta iscrivere solo a metà. Spero veramente che la mia vita cambi».
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