Carceri: perché il 70% dei detenuti torna a commettere reati
Cosa dice la legge
L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario, individua nel lavoro uno dei pilastri rieducativi, e stabilisce che deve essere assicurato, incentivato, remunerato. Vuol dire che durante la detenzione i condannati in grado di lavorare, e che lo desiderano, devono seguire corsi di formazione e svolgere con regolarità un mestiere che li aiuti a reinserirsi nella società. Con la retribuzione potranno così rimborsare lo Stato, aiutare un po’ la famiglia, e non trovarsi le tasche vuote a fine pena. La paga è fissata a due terzi di quanto stabilito dai contratti collettivi. Lo stanziamento dello Stato per le retribuzioni dei carcerati nel 2018 ha raggiunto i 110 milioni di euro (erano 60 fino al 2016). Negli ultimi 2 anni sono aumentate anche le paghe, ferme dal 1994: più 80%.
Quanti detenuti lavorano mentre scontano la pena
Nel 2018 i detenuti impiegati in un lavoro erano 17.614 (in calo del 4,3% in numeri assoluti rispetto al 2017). Di questi, il 25% lavora fra le 3 o 4 ore al giorno e a rotazione, ovvero un giorno sì e due no. Si tratta di attività alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: addetti alle pulizie e alla cucina, alla manutenzione ordinaria del fabbricato, lavanderia, spesa, cuochi e aiuto cuochi, oppure piantoni, scopini e scrivani. Anche la remunerazione individuale di conseguenza varia ed è difficilmente quantificabile, se non attraverso i parametri di riferimento: dai 150 euro al mese per uno scopino impiegato 3 ore al giorno, ai 650 euro per il cuoco che ne lavora 6. Dallo stipendio viene trattenuto il vitto: 3,60 euro al giorno.
I detenuti che svolgono invece un’attività regolare sono soltanto 2.386 (il 3,9%). Lavorano in carcere per conto di ditte esterne, oppure alle dipendenze di società e cooperative, uscendo la mattina e rientrando la sera. Come avviene in tutta Europa, per chi assume carcerati, la legge prevede sgravi fiscali: i 4 milioni di euro a disposizione nel 2019 sono stati richiesti da 9 società.
Risultati
In totale quindi circa il 29% svolge una mansione, il grosso una tantum, e fa mestieri difficilmente spendibili una volta scontata la pena. Gli altri sono tenuti per anni a giocare a carte o a guardare la tv, e non bastano le lodevoli e pur indispensabili attività culturali date in gestione alle cooperative o quelle del volontariato. Se si esclude il modello avanzato del carcere di Bollate, dove su 1.288 detenuti lavorano in 500, e il tasso di recidiva non supera il 18%, il risultato è un costo sociale incalcolabile.
Le statistiche sono chiare: il 68,4% di chi non ha svolto nessuna attività torna a delinquere, il tasso si riduce all’1% per chi è stato inserito in un circuito produttivo.
Il meccanismo paradossale
Il problema è che i 110 milioni stanziati dallo Stato per le retribuzioni non bastano a far lavorare tutti. E chi, pur di non stare a far niente, è disponibile a lavorare anche gratis, non gli è permesso, proprio perché in assenza di remunerazione, è considerato «lavoro forzato». Eppure affidare lavori di regolare manutenzione carceraria, per esempio, eviterebbe quel degrado che poi viene tamponato con appalti esterni, e sarebbe utile anche per ridurre il sovraffollamento per cui l’Italia paga multe all’Europa. Nelle nostre carceri ci sono 10.000 detenuti in più rispetto ai posti disponibili, anche a causa di camerate o intere sezioni fuori uso per inagibilità o lavori in corso: al 14 febbraio 2019 quelle inutilizzabili sono pari al 6,5% del totale. I casi limite: ad Arezzo da più anni su 101 posti solo 17 sono disponibili, a Gorizia 24 dei 57 previsti, e in Sardegna il 13% dei posti ufficiali è inutilizzabile.
Come funziona nelle carceri avanzate
Le carceri francesi e tedesche non sono messe molto meglio delle nostre, però riescono a far lavorare rispettivamente quasi il 50% e il 65% dei detenuti. Sta di fatto che il tema dei soldi per le retribuzioni è comune in tutti i Paesi occidentali, ma in Olanda, Irlanda, Austria e alcuni Stati americani hanno affrontato la questione con un altro ragionamento: siccome devo far lavorare tutti, ma i soldi per pagarli non li ho, l’Amministrazione penitenziaria calcola uno stipendio virtuale, dal quale trattiene le spese di giustizia e di mantenimento, e dà al detenuto la differenza. Dentro al carcere vengono organizzate attività che rendono la struttura indipendente (muratori, falegnami, sartoria) e stipulati accordi con aziende private. L’amministrazione incassa il dovuto e retribuisce il detenuto applicando lo stesso meccanismo. Quasi tutti accettano il programma e, in cambio, ottengono sconti di pena, più visite, permessi e un mestiere in tasca quando escono. Il risultato: recidive bassissime. In Italia si fa il contrario.
I lavori di pubblica utilità
Uno degli obiettivi della riforma dell’ordinamento penitenziario dell’ottobre 2018 è di incentivare i lavori di pubblica utilità presso i Comuni o altri enti pubblici. I detenuti ricevono un corso di formazione qualificante e dopo un primo periodo di attività volontaria e gratuita potranno ottenere un sussidio finanziato dalla Cassa Ammende. Ma i numeri sono ancora bassi: i detenuti coinvolti dai Comuni sono stati 4.500 di cui 1.000 a Roma. La capitale li sta impiegando a rotazione per la manutenzione stradale, la pulizia del verde e il rifacimento delle strisce pedonali. Ma la maggior parte dei sindaci temono le «paure» dei loro cittadini, e così preferiscono lasciare strade, muri e giardini sporchi.
La riforma che non parte
Oltre che incentivare il lavoro, per i condannati a pene lievi è considerata necessaria anche la revisione dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, come l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà e la liberazione anticipata. Sono misure adottate da tempo e con successo, nel Nord Europa. Era quanto previsto sempre nel provvedimento di revisione dell’ordinamento penitenziario, ma il decreto attuativo è stato stoppato a ridosso delle elezioni del 4 marzo 2018 e da allora la riforma langue. In tutto questo, per Strasburgo il nostro problema più urgente è cancellare la legge che vieta i permessi premio agli ergastolani mafiosi. E la Consulta gli ha dato pure ragione.
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