Ilva, l’ira di Taranto e degli operai: «Cosa dirò adesso ai miei figli?»

Michelangelo Borrillo, inviato a Taranto

Due parole forti e due dignitose lacrime. «Disastro sociale» è la frase pronunciata da monsignor Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, che in una intervista a Radio Vaticana Italia ha evidenziato la sua paura, quella di «una calamità sociale che possa aggiungersi a quella ambientale». Parole che fanno il paio con la frase di Michele, l’operaio che con occhi lucidi, al cambio turno, senza attendere le domande, ripete a se stesso il mantra che lo accompagnerà fino a casa: «Cosa dirò questa sera a cena ai miei tre figli quando mi chiederanno se rischio di perdere il posto di lavoro»? Il timore che da ieri si vive in riva allo Jonio — quello lontano dai bagliori del Salento e vicino ai fumi dell’Italsider, come ancora chiamano qui la fabbrica che chiude l’orizzonte a chi arriva in città — è ben sintetizzato dalle parole provenienti da un pulpito importante e dagli occhi di uno spaesato operaio all’uscita dalla fabbrica.

La paura dell’arcivescovo e di Michele sono quelle di mezza Taranto, la seconda città della Puglia che vive con il lavoro dell’acciaieria: un tempo Italsider di Stato, poi Ilva con i privati della famiglia Riva e oggi — ma forse sarebbe meglio dire fino a ieri — ArcelorMittal. Una fabbrica — in cui lavorano 8.200 dei complessivi 10.700 dipendenti del gruppo — amata e odiata, spesso nella stessa famiglia e a volte anche da una stessa persona, a seconda di quello che la vita, nel tempo, gli ha riservato. Le sensibilità sull’argomento, a Taranto, sono sempre state a metà: mezza città che vuole continuare a lavorare per vivere e mezza città che se ne infischia dell’acciaio.

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