Ilva, l’ira di Taranto e degli operai: «Cosa dirò adesso ai miei figli?»

Sempre per vivere, preferendo non continuare a morire di cancro. Tanto è spaccata la città che, alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, il Movimento 5 Stelle ottenne un voto su due — il 47% — proprio grazie alla promessa di chiudere l’acciaieria. Tanto è ingombrante l’Ilva, nell’economia della Puglia, che è un’intera regione ad essere spaccata sull’argomento. La riprova è nelle parole del presidente Michele Emiliano: «Se l’Ilva non fosse mai esistita, sarebbe stata una fortuna per la Puglia e per Taranto. Ma la fabbrica esiste, uccide cittadini e operai, è totalmente illegale come dimostra la stessa ArcelorMittal che senza una immunità penale speciale intima con arroganza allo Stato italiano di riprendersi la fabbrica entro 30 giorni». Fin qui la faccia ambientalista. Poi, però, l’incubo della chiusura — mai vista così da vicino dall’inizio degli anni 90, quando l’Europa costrinse l’Italia a scegliere tra Napoli e Taranto (e chiuse l’Italsider di Bagnoli) — fa emergere anche l’altra faccia della medaglia, quella del lavoro. Anche in Emiliano: «La soluzione non è far implodere la fabbrica per la deresponsabilizzazione di ArcelorMittal. Lascerebbero una bomba ecologica irrisolta e migliaia di disoccupati. E questo è inaccettabile». «A costo di andare in 10 mila a Roma, non succederà», sono le parole di Luigi, che accompagna Michele all’uscita dalla fabbrica, ma con un piglio più combattivo, perché perdere il lavoro «non esiste».

Di certo la metà di Taranto che teme di perdere il lavoro, in queste ore prevale su quella che auspica da sempre la chiusura della fabbrica e che vive a fianco dell’altra metà. Un conto è sperare che in futuro possa esserci una Taranto senza inquinamento, un altro è trovarsi dall’oggi al domani in una Taranto senza futuro. Rischio che non viene considerato dal sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, per il quale se quella di ArcelorMittal «non fosse una tattica, come in fondo ci auguriamo, dovremmo essere pronti a un rilancio coraggioso, per i nostri concittadini». Quale? Forse tornare alla Taranto descritta da Pier Paolo Pasolini, nel 1959, nel reportage lungo le coste italiane, La lunga strada di sabbia, una città in cui «viverci è come vivere all’interno di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia». Solo che adesso, a differenza di 60 anni fa, prima di arrivarci c’è una fabbrica. Che, se venisse abbandonata, «diventerebbe un disastro sociale».

CORRIERE.IT

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