Balotelli e un mondo malato. Quanta rabbia sfoghiamo con il calcio
di MICHELE BRAMBILLA
Ci sono due modi per affrontare il caso Balotelli.
Il primo è quello di chiedersi se l’Italia sia un Paese razzista, ed è
una domanda retorica e sciocca perché l’Italia è tante cose: c’è una una
grande tradizione di accoglienza e c’è anche del razzismo (minoritario, credo, ma comunque da fermare subito perché in grado di far danni: questo sia detto come ovvia premessa).
Il secondo modo è invece quello di chiedersi che cosa sia ormai diventato il mondo del calcio:
è questa la vera questione. Ed è talmente vero che la questione è
questa che il mondo del calcio se ne guarda bene dall’affrontarla: più
comodo, e ipocrita, fermarsi al solo tema dei buuu ai giocatori di
colore, e non vedere che attorno al football c’è ormai un’isteria tale
da richiedere l’intervento degli psichiatri.
Dicendo che i ragli razzisti salgono da pochi asini in qualche curva, e che questi asini devono avere il Daspo a vita, il mondo del calcio assolve se stesso ed esorcizza il problema. Intanto perché tutti sanno che le curve degli ultrà sono tollerate quando non foraggiate dalle stesse società (e qui sta la prima ipocrisia). E poi perché quand’anche si spegnessero i cori razzisti, resterebbero appunto certe curve piene di delinquenti: ma non solo, andiamo più in là, resterebbe un clima di tensione, di rabbia e di rancori che negli ultimi anni è cresciuto a dismisura.
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