Il web ha bisogno di regole non di «censura privata»
Anche in questo caso vediamo all’opera la tendenza alla privatizzazione del regime della libertà di informazione: ciascuna piattaforma stabilisce le regole con cui pone limiti ai contenuti che ospita e adotta propri meccanismi di «content moderation», affidati all’algoritmo e a interventi di specialisti da essa dipendenti. La Commissione ha riconosciuto i progressi compiuti ma anche le insufficienze dell’autoregolazione, perché, per esempio, le azioni intraprese variano a seconda della piattaforme e vi sono forti remore a rafforzare il potere dei consumatori e consentire l’accesso da parte di ricercatori e «fact checkers» indipendenti ai dati e ai meccanismi utilizzati. Perciò, la Commissione non esclude una regolazione europea della materia. Ipotesi che affiora anche nel programma della presidente Ursula von der Leyen, mentre ancora più intense sono le voci che si levano dall’altra parte dell’Atlantico a favore di regole adatte a Internet e che hanno trovato nella senatrice Warren la più visibile sostenitrice.
Il fatto stesso che si pongano simili problemi dimostra come siano stati superati due dogmi dell’ideologia della Silicon Valley, e cioè l’idea che Internet non ha bisogno di regole e quella secondo cui per contrastare fake news e odio in rete è sufficiente affidarsi al «libero mercato delle idee», e cioè alla capacità del singolo di confrontare informazioni e idee diverse per formarsi un’opinione in un sistema dove la moneta buona finisce per scacciare quella cattiva. In realtà la personalizzazione dell’informazione che appare sullo schermo porta al noto fenomeno della «filter bubble», per cui ciascun utente resta chiuso in una bolla in cui riceve solamente l’informazione che gli interessa e che è coerente con i suoi pregiudizi, che vengono rafforzati dall’eco positiva che ottengono sempre le sue idee. Tutto ciò esclude alla radice la sua partecipazione a un libero mercato delle idee e crea l’ambiente adatto affinché fake news e discorsi d’odio possano attecchire. Da qui, l’esigenza di introdurre regole e meccanismi in grado di fronteggiarli. Già oggi queste regole esistono, ma la loro definizione e la loro applicazione è rimessa essenzialmente agli stessi operatori delle piattaforme, che lo fanno seguendo i loro interessi commerciali. Il consumatore si sottopone a queste regole quando sottoscrive il contratto con la piattaforma.
È accettabile questa privatizzazione del regime della libertà di informazione? L’interrogativo è ancora più importante se si tiene conto che alcune di queste piattaforme sono divenute i «gatekeepers» dell’informazione sul web perché per rendere fruibile l’oceano di informazioni esistenti dobbiamo necessariamente affidarci ai servizi di motori di ricerca e social network, i cui algoritmi stabiliscono quale informazione dobbiamo ricevere e secondo quale ordine. Alcuni Stati, come la Francia e la Germania, hanno rivendicato il ruolo dei Parlamenti approvando leggi dirette a contrastare le false informazioni e i discorsi d’odio, suscitando però il timore che seguendo questa via si introduca una forma di censura (il bavaglio alla rete). Preoccupazioni che vanno prese estremamente sul serio, ma perché non dobbiamo parimenti preoccuparci di quella sorta di «censura privata» che è svolta dai giganti del web?
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