Un Paese paralizzato che non sa decidere
La colpa della paralisi totale della pubblica amministrazione, che è molto ben visibile nello stallo delle opere pubbliche di ogni genere, non è infatti dei singoli funzionari. La colpa è del legislatore. Nel corso degli anni il Parlamento ha costruito una trama inestricabile di norme, spesso demagogiche, sull’onda della pressione dell’opinione pubblica. Una montagna di leggi-manifesto che ha avuto un duplice effetto: accrescere quella discrezionalità dei dirigenti che puntava invece a limitare, consentendo loro di scegliere come in un cesto di frutta la norma che preferiscono, o di non sceglierla affatto e aspettare; e d’altra parte allargare il ventaglio di presunte irregolarità e omissioni su cui la giurisdizione penale e amministrativa può indagare. Il risultato è la fuga dalla responsabilità: chi avrebbe il potere di agire, evita. Il presidente dell’Aran ha detto l’altro giorno in un convegno che le sole norme per la trasparenza e l’anticorruzione impegnano il 30% del lavoro della pubblica amministrazione. Ne deriva una burocrazia addestrata all’adempimento, non all’azione, la cui principale preoccupazione è appunto adempiere ai mille atti e procedure previste, il cui mancato rispetto potrebbe un giorno condannarla, se le cose vanno male. La burocrazia in Italia è fatta dalle leggi, non dagli uomini, è un pachiderma perché si porta sulla groppa un castello di norme. E i politici non la smettono. Ogni nuovo governo, ogni nuovo partito, presenta una nuova «riforma», per farsi bello con l’elettorato, abbastanza incurante dell’effetto concreto, che dipende da regolamenti attuativi destinati di solito a non vedere mai la luce.
A tutto questo si aggiunge la confusione dei poteri che il bricolage politico-parlamentare ha creato in questi anni. Il pubblico decisore opera in un Paese per metà federalista e per metà centralista. Il pendolo oscilla di qua e di là col mutare delle ere politiche, in un continuo scambio di ruoli. Su ogni singola decisione incidono così una miriade di enti, comuni, province, regioni, provveditorati, prefetture, sovrintendenze. Per mostrare i muscoli hanno abrogato le province, solo che hanno dimenticato di abrogarne le funzioni. Così ci sono lo stesso, ma senza più fondi e senza più amministratori che ne rispondano agli elettori. Nell’anniversario della caduta del Muro di Berlino sono stato invitato in un liceo romano a parlarne ai ragazzi, splendida iniziativa. Nell’aula magna però pioveva: per l’occasione al posto del secchio avevano messo una pianta a raccogliere l’acqua. Riparare toccherebbe alla provincia, ma da quando non ci sono più gli assessori la preside può chiamare solo un funzionario, che naturalmente aspetta di essere autorizzato alla spesa.
La paralisi è tale che per evitare la matassa delle norme annodata dal legislatore si finisce con il dover concedere poteri speciali per eluderle. La disgraziata storia del Consorzio Venezia Nuova, nato proprio per fare il Mose, dimostra che il rimedio può essere molto peggiore del male. L’impotenza dello Stato è certificata dalla flebile reazione alla drammatica emergenza di Venezia. Un super commissario al posto dei due commissari. La convocazione di un «Comitatone interministeriale per la salvaguardia di Venezia». E la previsione del premier Conte che il Mose si completerà «verosimilmente nel 2021». Questo è tutto. Più di così, onestamente, non si può annunciare. Viene il dubbio che lo Stato stesso abbia smesso di credere alla sua forza.
Quando i socialisti andarono per la prima volta al governo, nel secolo scorso, pensavano di poter finalmente entrare nella «stanza dei bottoni». Poi Pietro Nenni ci entrò e scoprì che non c’erano i bottoni. Oggi, mezzo secolo dopo, non c’è neanche più la stanza. È questo il nostro problema: la scomparsa della decisione..
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