Hong Kong, tutto quello che c’è da sapere sulla rivolta

Perché nasce la rivolta

La rivolta inizia il 9 giugno, quando un milione di persone scendono in strada. Protestano contro una nuova legge che permette a Pechino di processare e condannare nei suoi tribunali chi ha commesso reati a Hong Kong e anche, questo il timore, dissidenti politici. La legge poi è stata ritirata, ma ormai la miccia è innescata e ora la richiesta è quella di elezioni libere. Esistono 25 gruppi pro-democrazia e 26 pro-Pechino, sulla carta chiunque si può candidare: nella realtà, grazie a un complicatissimo sistema di quote, i candidati sono mandarini del Partito. Una vera scelta o libertà di voto di fatto non è mai esistita. E da questo sistema è nata la governatrice Carrie Lam, travolta dalla protesta e considerata dagli studenti un fantoccio di Pechino.

Bilancio dopo 5 mesi di proteste

«Hong Kong libera» si grida nei cortei. Ogni giorno un raduno e decine di scontri. Da una parte studenti e impiegati con bottiglie molotov, catapulte e sassi, frecce incendiarie, giavellotti e armi medievali. Dall’altra la polizia locale, armata fino ai denti, ma tecnicamente impreparata. Dopo 5 mesi ecco il bilancio degli scontri: circa 4500 fra arrestati e fermati, per il 40% sotto i 18 anni di età, 2500 feriti di cui 5 gravi, uno studente e un anziano cittadino uccisi dai proiettili sparati dagli agenti, un agente colpito da una freccia, un simpatizzante filo cinese in fin di vita.

Si contano i danni

I danni materiali a fine ottobre ammontavano a 9 milioni di dollari. I voli, da e per l’aeroporto, crollati del 13%. Tutte le università e scuole sono chiuse, gli studenti stranieri arrivati per gli scambi culturali stanno già tornando a casa. Il tunnel vitale che attraversa la baia è bloccato dalle barricate in fiamme. Quella che era la capitale finanziaria dell’Asia è oggi una città paralizzata, avvolta da nubi di gas lacrimogeno, con decine di stazioni della metropolitana devastate.

La città con il più alto numero di milionari

Per la prima volta negli ultimi 10 anni, Hong Kong è in recessione tecnica. L’agenzia di rating Fitch ha declassato il credito da AA+ ad AA, con prospettive in peggioramento. Attraverso questo territorio passano due terzi delle risorse finanziarie internazionali dirette in Cina, 1500 compagnie straniere hanno le loro filiali: alcune sono fra le più importanti del mondo: banche, alta moda, ingegneria digitale. Ospita la più alta concentrazione di grattacieli (310) e di milionari: in 10.000 possiedono più di 30 milioni di dollari.

Più di un milione di poveri

Oltre all’alto reddito di pochi, che ruota attorno alla crescita del centro finanziario e ne ha fatto la città asiatica più costosa, non si è sviluppato nient’altro. Secondo dati ufficiali pubblicati dal «South China Morning Post», a Hong Kong ancora nel 2016, su 7,3 milioni di cittadini, 1,3 milioni erano classificati sotto il livello di povertà, meno di 512 dollari percepiti ogni mese. Tutti gli altri cittadini sono un embrione di classe media mai del tutto consolidata: garanzia sicura di instabilità. Nell’ultimo anno, il rallentamento dell’economia cinese ha peggiorato le cose, e in questi mesi ci sono stati 9 suicidi legati alla crisi. Nelle proteste c’è anche questo.

Il passaggio da Londra a Pechino

La crisi di Hong Kong nasce dalla sua storia recente, ma anche antica. Divenne colonia britannica nel 1843, dopo la guerra dell’oppio, in regime di concessione accordato dall’impero cinese. Anno fissato per il ritorno alla madrepatria, il 1997. Pechino e Londra concordarono un passaggio graduale secondo il principio «un Paese due sistemi»: dal 1997 e per 50 anni la città avrebbe avuto lo status di «regione autonoma e amministrativa speciale», con libertà teorica di parola e riunione garantita ai suoi abitanti. I 50 anni finiranno nel 2047, nessuno sa che cosa accadrà dopo. Ma il compromesso è già finito. «Hong Kong non è Cina» dicono gli striscioni inalberati nei cortei.

I blindati schierati a 27 km da Hong Kong

In città sono acquartierati dai 6 ai 12.000 soldati e miliziani cinesi, ma il grosso della forza è rappresentato dalla Polizia del Popolo, forze speciali anti-tumulti e fortemente ideologizzate alle dirette dipendenze di Xi Jinping. Le stesse usate in Tibet e nello Xinjiang, controllate solo dal leader cinese in prima persona. Invece la polizia locale di Hong Kong, 30.000 membri demoralizzati e demotivati, oggi sa di poter contare sull’Esercito Popolare. Intanto a 27 km dal centro finanziario c’è Shenzhen, una zona altamente produttiva dove si sono manifestati segni di malessere, e ci sono stati arresti nelle fabbriche e nelle università. Il contagio non sarebbe tollerabile e anche per questo Pechino ha schierato da mesi carri armati e blindati.

La tattica di Xi Jinping

Altre mine innescate, di cui non si parla troppo. Nei 1098 chilometri quadrati di Hong Kong vive una popolazione cinese che ha ereditato la cultura cosmopolita dell’impero britannico, il 20% sono cantonesi del Sud: pescatori e commercianti che hanno sempre trafficato con le altre culture dell’Asia e dell’Europa e parlano il cantonese, non il mandarino, la lingua ufficiale dell’altro impero, quello comunista. Gli studenti che scrivono «Questa non è Cina» sono i loro discendenti. La crisi sembra senza sbocchi. I manifestanti non hanno un leader, e per gli esperti militari stranieri e gli studiosi della facoltà di legge dell’università di Hong Kong la tattica di Xi potrebbe essere l’aggravamento dei tumulti dietro provocazione della polizia, qualche morto per strada – anche in uniforme – dimissioni della governatrice Carrie Lam e intervento della Polizia del Popolo per soffocare la rivolta, contenendo il bilancio delle vittime, l’impatto internazionale, le ripercussioni finanziarie e le responsabilità politiche di Pechino. Hong Kong come il Tibet fa paura.

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