L’eterna piaga dell’incuria: in Italia si interviene solo «dopo»
Dice un rapporto dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici, rapporto del 2007 ma ancora valido, che «la superficie territoriale regionale è rappresentata per il 97,58% (pari a 5.276,65 chilometri quadrati) da aree montano- collinari e per il 2,42% ( 13,05 chilometri quadrati), da aree di pianura» e che tra quei bellissimi e tormentati spazi «sono state censite complessivamente 7.513 frane» per la stragrande maggioranza sul versante tirrenico.
Un problema serissimo. Aggravato via via nei secoli, ma con una spericolata accelerazione negli ultimi decenni, dalle scelte compiute dagli uomini. Capaci di occupare ogni metro quadrato del terreno, fino a consumare (dato Ispra) il 22,8 per cento di spazio utile. Un problema, è vero, comune anche ad altre parti d’Italia e anche in tempi più lontani. Basti ricordare che già Leandro Alberti nel XVI secolo spiegava che «essendo tanto moltiplicati gli huomini et non essendo sofficienti i luoghi piani» la cattiva gestione dei territori montani e boscosi dove un tempo «scendevan l’acque chiare fra selve et herbette et scendevano con minor impeto et minor abbondanza» ora erano stravolti e la pioggia «non fermandosi, incontinente scendendo, et seco conducendo la terra mossa» finiva per causare alluvioni e frane «il che così non occorreva nei tempi antichi».
Un problema aggravato a metà del secolo scorso. «Il caso limite è la riviera ligure, dove località già famose per i loro parchi e giardini sono ridotte ad avere venti centimetri quadrati di verde per abitante “estivo”, e dove l’indice di affollamento supera d’estate quello del centro di Londra», scriveva sul Corriere già nel 1966 Antonio Cederna. Per non dire delle furenti reprimende di Indro Montanelli: «Purtroppo io ho visto una cosa: che appena si apre un rigagnolo di strada e il rigagnolo diventa torrentello, il torrentello diventa fiume e il fiume diventa il Rio delle Amazzoni, è il veicolo del cemento che si mette scalare la montagna».
Evidentemente, sospirava, «il buon Dio fece il “giardino d’Europa” in un momento d’indulgenza e di abbandono. Poi si accorse della propria parzialità e la corresse mettendoci come giardinieri gl’italiani». Amarissima la conclusione: «È più facile combattere la mafia, il delitto d’onore e l’abigeato che la pacchianeria e l’indifferenza alle bellezze naturali e paesaggistiche». Perché ricordare, oggi, quei moniti lontani? Perché i disastri degli ultimi anni, la grande terrazza di Andora scivolato giù dalla scarpata fino al treno intercity Milano Ventimiglia, le esondazioni dei torrenti Bisagno e Fereggiano e Polcevera, la collina slittata in mare tra Nervi e Bogliasco, la frana di Laigueglia, lo schianto di ieri e su tutti il crollo del viadotto Morandi, dicono che troppi nodi stanno venendo al pettine. E che l’Italia deve prendere i problemi di petto.
Siamo bravissimi, dicono tutti, negli interventi di emergenza. Ma non ne possiamo più di intervenire solo «dopo». Quando si contano i danni, i feriti, i morti. Costano in media due miliardi l’anno, secondo uno studio del Cineas, il Consorzio del Politecnico di Milano che si occupa della cultura del rischio, gli interventi di emergenza «dopo» ogni calamità più o meno naturale.
L’Ance, cioè l’associazione dei costruttori si spinse, tempo fa, a calcolare cifre ancora più alte: «Il costo complessivo dei danni provocati in Italia da terremoti, frane e alluvioni, dal 1944 al 2012, è pari a 242,5 miliardi di euro». Non si tratta neppure di soldi. Lo Stato, i ministeri, le regioni, risultano averne qua e là diversi. Sei miliardi rimasti ancora da spendere del Fondo Italia Sicura. Tre abbondanti dati da gestire alla Protezione civile. Altri tre nella pancia delle Regioni, soprattutto della Sicilia e della Campania. Trecento milioni nelle casse di vari ministeri, dall’ambiente alle infrastrutture, dagli interni all’agricoltura. Quelli che mancano sono i progetti. L’intenzione di partire sul serio. La volontà di decidere.
Purché non vada a finire come dopo la disastrosa piena del Tevere del 15 d.C. Quando, racconta Tacito, le discussioni intorno ai provvedimenti che potevano essere presi furono così tante ed accese che «si finì con l’accogliere il parere di Pisone, ossia di non fare nulla».
CORRIERE.IT
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