M5S, l’ombra della scissione. Al bivio governisti e tentati dalla Lega

È una partita che mette a rischio il governo e che ha molti protagonisti, uno per ogni anima del «fu» primo partito. Da una parte c’è Di Maio, che fa ormai apertamente asse con Alessandro Di Battista e non nasconde l’ostilità all’esecutivo che lui stesso ha formato. Dall’altra ci sono i «governisti», che cercano riparo nella terra di confine tra il premier Conte e il Pd. Infine il consistente gruppo dei deputati a fine corsa, arrivati al secondo mandato e non più ricandidabili.

Il patto con Di Battista

Di Maio non ha mai digerito il governo con il Pd. Nella riunione che diede il via libera al Conte 2, fu tra i più ostili. La riluttanza è andata crescendo e lo ha portato a riscoprire Di Battista, con il quale era entrato in rotta di collisione e che ora non perde occasione per sostenerlo, in chat o pubblicamente. «Prima o poi si dovrà staccare la spina», ripete Di Maio ai suoi, con una tale insistenza da aver generato il panico tra i parlamentari. «Si chiude la legge di Bilancio e Luigi manda tutti a casa», prevede un onorevole. E una «contiana», sottovoce: «Vuole tornare con Salvini». Temono voglia davvero mettersi alla testa di un movimento rinnovato e più piccolo, libero dal Pd e dal giogo del governo e pronto a risalire nei sondaggi, tornando magari ad allearsi con la Lega. Se pure la suggestione fosse forte, sarebbe osteggiata da gran parte dei fedelissimi. L’ultimo scontro risale a ieri. Il «capo» aveva chiesto al gruppo della Camera di chiudere il teatrino sul capogruppo eleggendo Francesco Silvestri. Ma i deputati si sono ribellati all’«imposizione dall’alto» e hanno preso tempo. Tra i pochi a seguire Di Maio sulla linea della rottura sarebbero allora Di Battista e Paragone, da sempre filoleghista, mentre persino Fraccaro e Bonafede hanno preso a rispondere a muso duro alle minacce di crisi di «Luigi».

Grillo solo parlante

L’unico che può fermare Di Maio, per statuto, è Beppe Grillo. Il quale però non può usare l’arma finale, se non a rischio di far cadere un governo a cui tiene più del capo politico. Così si limita a una moral suasion che, nell’ultimo caso, non ha sortito effetto. Di Maio dopo il colloquio con Grillo non ha cambiato di una virgola il suo atteggiamento. Anzi, forse l’ha indurito. Quanto a Grillo, non sembra disposto a sostenere i rivoltosi e in caso di scissione potrebbe ritirarsi sull’Aventino.

Sfida per la leadership

Se lunedì l’aria nei gruppi era «irrespirabile», molto lo si deve alla rivalità tra Di Maio e Conte. Lo scontro sul Mes viene spiegato anche in questa chiave. I rapporti tra i due si sono di nuovo interrotti, anche perché Di Maio sospetta che il premier lavori per sottrargli parlamentari in vista di un futuro partito «alla Monti». E dire che fu proprio l’attuale inquilino della Farnesina a infilare il giurista pugliese nella rosa dei papabili ministri, nel mai nato monocolore 5 Stelle. Conte raccontò: «Quando mi hanno telefonato, per onestà intellettuale dissi che non li avevo votati». Eppure il premier è stato sempre considerato uno del M5S. Almeno fino a quando Di Maio ha cominciato a temerlo (e a combatterlo).

Le correnti

Le correnti organizzate non hanno mai attecchito nel M5S, ma si possono individuare gruppi di deputati che si muovono all’unisono. Ci sono quelli che fanno riferimento al presidente Roberto Fico e c’è il correntone virtuale dei «morti viventi», come li chiama qualcuno, cioè gli 86 parlamentari al secondo mandato. Tra loro lo stesso Fico e poi Castelli, Di Stefano, Ruocco, Sibilia, Bonafede. Tutti onorevoli che, salvo improbabili ripescaggi al governo, dovrebbero smettere di fare politica. Ecco perché, se Maio decidesse di spingere per una fine prematura della legislatura, potrebbero diventare i nuovi «responsabili» pronti a resistere per salvare il soldato Conte (e loro stessi).

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