Perché gli studenti italiani non imparano?
di Federico Fubini
Spesso accusati di agire in segreto, per una volta il mese scorso i ministri finanziari europei hanno davvero avuto una discussione semi-clandestina. Non si parlava di regole sul debito o per le banche, ma del più pubblico dei problemi: quanto spendere e come far sì che una nuova generazione di europei impari qualcosa sui banchi di scuola. L’idea era della Finlandia, uno dei Paesi che investe di più in educazione: ha chiesto alla Commissione europea di mettere in rapporto la spesa pubblica per scuole e università dei vari Paesi e i risultati degli studenti.
La graduatoria Pisa
Era questo l’aspetto che molti governi, comprensibilmente, non volevano fosse reso noto. Nessun politico, uomo o donna, ha voglia di essere giudicato a Bruxelles e criticato in patria perché magari usa il denaro dei contribuenti senza risultati visibili. In un’epoca di confronti internazionali continui sulle performance dei Paesi, mostrare che si buttano dei soldi addosso a un problema non basta più. Bisogna anche che lo si veda nelle classifiche. Il rapporto della Commissione è dunque rimasto confidenziale, ma il «Corriere» ha cercato di replicarne l’impianto confrontando la spesa in istruzione e i risultati dei ragazzi nei vari Paesi europei. È un buon momento per farlo. L’Ocse di Parigi, un organismo multilaterale, ha appena pubblicato l’ultima graduatoria Pisa («Programme for International Student Assessment») sul livello degli studenti di 15 anni. Deriva da un test su 600 mila ragazzi in 79 Paesi, somministrato nel 2018. Il «Corriere» lo ha raccontato in dettaglio il 4 dicembre con Gianna Fregonara e Orsola Riva.
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