Gli squilibri di potere tra politica e giustizia

La dilatazione abnorme della sfera di applicazione del diritto penale, la sua incombenza, opprimente e arbitraria, su ogni aspetto della vita civile non sarebbero stati possibili se, a un certo punto, non fosse avvenuto un radicale ribaltamento dei rapporti di forza fra potere politico-rappresentativo e potere giudiziario. Una prova di quell’avvenuto ribaltamento si ebbe quando nella primavera del 1993 bastò una incendiaria apparizione televisiva del pool di Mani Pulite per fare insorgere il Parlamento contro l’allora governo Amato costringendolo a ritirare un provvedimento sgradito alla Procura di Milano. Alla scassatissima, imperfettissima, democrazia liberale italiana si era ormai sostituita una altrettanto scassata democrazia giudiziaria. È da quei tempi che l’espressione «potere forte» (usata, in anni precedenti, dalla sinistra comunista per indicare il grande capitale) è ormai sinonimo di potere giudiziario, con speciale riferimento alla sua componente inquirente.

Ciò detto bisogna non cadere nella trappola di credere che in questa vicenda contino soltanto le élite, che tutto si risolva nel contestuale indebolimento delle élite politico-rappresentative e nel rafforzamento di quelle giudiziarie. Perché questa trasformazione, questo ribaltamento dei rapporti di forza fra politica rappresentativa e magistratura inquirente ha goduto e gode di ampi consensi nel Paese, corrisponde a una vocazione e a una tradizione illiberali (o anche, diciamo francamente: liberticida) nella quale si riconoscono tanti cittadini italiani. Si tratti di scudi legali a protezione dei parlamentari o di freni al regime di intercettazione selvaggia qui vigente, non c’è stato mai un tentativo della politica di riguadagnare le posizioni perdute che non incontrasse la feroce opposizione di settori ampi dell’opinione pubblica. Settori ai quali sarebbe fiato sprecato tentare di spiegare che la «lotta ai corrotti» in nome della quale è avvenuta la penalizzazione integrale della vita pubblica si è rivelata, puramente e semplicemente, un fallimento totale e che le strade per bonificare quanto va bonificato dovrebbero essere molto diverse da quelle fin qui percorse.

La prova più evidente di come il debordare dell’azione penale e i sentimenti profondi di una parte non irrilevante del Paese siano coerenti e in sintonia è dimostrato da quanto accade quando di tanto in tanto emerge una leadership politica che promette di essere forte. In quasi tutte le altre democrazie occidentali leader forti emergono — si chiamino Merkel o Thatcher, Reagan o Sarkozy, Gonzales o Bush, eccetera — e anche quando inciampino in inchieste giudiziarie (inchieste della magistratura ordinaria intendo) non corrono per lo più grossi rischi personali. In Italia è diverso. Qui da noi quando emerge un leader che per le sue caratteristiche promette di essere un leader forte, sappiamo tutti che c’è un Piazzale Loreto che lo aspetta: Craxi, Berlusconi, Renzi. Scommetto che molto presto arriverà anche il turno di Salvini. Semplicemente, la democrazia giudiziaria non è compatibile con leader forti. E può contare su un’ampia riserva di consensi popolari. Non ci si faccia ingannare dai sondaggi che indicano maggioranze a favore dell’uomo forte. Questa è solo un’altra dimostrazione dei bassi consensi di cui gode la democrazia rappresentativa. Una parte di coloro che apprezzano l’uomo forte ha anche sempre apprezzato gli interventi giudiziari in politica. Dal punto di vista dei fautori della democrazia giudiziaria , una leadership politica forte, ancorché democratica, sarebbe comunque una minaccia per lo status quo: potrebbe riuscire prima o poi a riequilibrare i rapporti di forza fra potere rappresentativo e potere giudiziario. Si ricordi che i settori più politicizzati della magistratura erano apertamente schierati per il «no» nel referendum costituzionale del 2016. È chiaro il perché. Una vittoria dei «sì» avrebbe determinato un rafforzamento eccessivo (dal punto di vista di quei settori della magistratura) della posizione politica di Matteo Renzi. Una eventualità ritenuta, a ragione o a torto, pericolosa per gli equilibri ormai consolidati.

È proprio grazie all’ampia riserva di consensi di cui continua a godere nel Paese che la democrazia giudiziaria è in una botte di ferro. Perché quei consensi garantiscono ai settori più militanti del potere giudiziario di poter contare sulla sicura connivenza di frazioni quantitativamente importanti della classe politica. Oggi i 5 Stelle, ieri una parte del Pd. Chi ama negare le specificità italiane suole ricordare che il ruolo dei magistrati è cresciuto, in virtù di un insieme di complicati processi sociali, in tutte le democrazie. È vero ma si tratta solo di una mezza verità. Mentre la democrazia rappresentativa, di questi tempi, soffre un po’ ovunque nel mondo occidentale, l’Italia, con la sua debole classe politica e la sua rampante democrazia giudiziaria, sta percorrendo da tempo una sua strada originale. Ma è una strada che non porta in Paradiso.

CORRIERE.IT

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