Fatta la manovra, bisogna fare il Governo

Interviene Dario Franceschini. Il capo delegazione del Pd fa un ragionamento semplice: “Se si vuol fare un vertice va benissimo, ma le autonomie affrontiamole separatamente, meritano una sessione a parte per la complessità dell’argomento”. Venerdì Conte è a Bruxelles: “Lunedì faremo un vertice di governo”, risponde ai giornalisti. “Per migliorare la manovra”, aggiunge incredibilmente. Peccato che la legge di bilancio arrivi dal Senato chiusa: qualunque modifica alla Camera richiederebbe un nuovo passaggio a Palazzo Madama, portando dritti a un’approvazione dopo Capodanno e quindi all’esercizio provvisorio. Il benedetto vertice cambia nuovamente. “Metteremo sul tavolo la riforma dell’Irpef e della giustizia tributaria – spiegava chi aveva parlato con il presidente – le crisi aziendali, il decreto Taranto. E ovviamente la prescrizione”.

Sabato il borsino parla di due vertici. Uno ad ampio raggio all’ora di pranzo, l’altro la sera sulle autonomie. Domenica l’appuntamento torna a essere uno solo, quello all’ora di cena, quello generale, che ingloba anche le autonomie. Lunedì ci si affanna a capire cosa diavolo ci sia in questo summit. All’ora di pranzo è ristretto a due temi: giustizia e autonomie. Nel tardo pomeriggio i pentastellati spiegano: “La presenza del ministro Bonafede non è prevista”. Solo dopo molte ore si delinea una situazione ancora nuova: i capi delegazione sì, si incontreranno solo la sera, ma no, non più sull’orizzonte di governo, nemmeno sulla giustizia, ma solo sulle autonomie. “Conte non era pronto – la spiegazione di una fonte dell’esecutivo lato Pd – il decreto Taranto è ancora mezzo vuoto, sulla prescrizione l’intesa ampiamente da limare. Per questo ha rinviato”. Dall’entourage di Palazzo Chigi si fanno spallucce, è sempre stato solo su autonomie, spiegano, tornando alla pianificazione di 5 giorni prima entrata in un frullatore pazzesco e risputata fuori tale e quale a se stessa. Nottetempo al confronto sulle autonomie, spiega il ministro competente Francesco Boccia, “sono arrivati contributi, che credo ultimativi, da M5S e Leu” e a gennaio il testo andrà in Parlamento come “collegato alla manovra”. Fine del film.

Si metta nel carnet anche lo scontro feroce tra M5S e Italia Viva sul decreto che ha tamponato la situazione della Banca Popolare di Bari, i veti incrociati sulle nomine alle reti e ai tg Rai congelate da settimane, fino all’ultimo, freschissimo bisticcio sulla Gronda di Genova con i 5 stelle che frenano gli entusiasmi della ministra dem De Micheli. Matteo Renzi lascia cadere sibillino che “non vede problemi”, per poi aggiungere: “Fino a gennaio potete andare in vacanza”. Un orizzonte piuttosto ridotto. Anche perché nel frattempo i 5 stelle perdono pezzi: dopo i cambi di casacca verso la Lega dopo il voto sul Mes, ora arrivano le defezioni in Senato sulla manovra: 4 assenti e il No di Gianluigi Paragone.

Il carrozzone giallorosso ha traghettato fin qui il paese evitando l’onda verde e portando a casa una manovra poco ambiziosa, discussa monocameralmente e sulla quale comunque sono volate botte da orbi. L’ex rottamatore lo chiama cambio di passo, Luigi Di Maio – che nelle ultime settimane ha usato prima il bastone di una comunicazione aggressiva e poi la carota del “dureremo fino a fine legislatura” – preferisce contratto con cronoprogramma, a Nicola Zingaretti non piace contratto ma verifica, Conte ambiziosamente conia “l’Agenda 2023”. Rimane il fatto che, qualunque sia la dicitura, malgrado i continui vertici di maggioranza sono tantissimi i fronti su cui manca sintonia: giustizia, banche, autonomie, crisi aziendali, l’elenco non si esaurisce facilmente. Dare una parvenza di compattezza alla squadra è la prossima mission. E se l’esecutivo non troverà un indirizzo comune in cui coabitare e da cui partire per il futuro, rischia di impelagarsi in quello che “sarà un anno bellissimo”, come profetizzò l’avvocato del popolo un anno fa su un Governo che non c’è più.

L’HUFFPOST

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