Le domande delle sardine (che non hanno risposte)

Ma destinata in partenza a restare inevasa, se prima non si prova a capire chi sono, di cosa sono espressione, come mai si sono messe in moto proprio adesso.

Dalla prima uscita a Bologna alla grande mobilitazione di Roma è passato meno di un mese, scandito da una quantità di mobilitazioni, quasi tutte riuscite, in molte città italiane. In queste poche settimane il movimento ha, ma solo in parte, cambiato faccia. È diventato un fatto politico di dimensioni nazionali, cui tanti che sardine non si sentono e non sono (compreso il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin) guardano con aperta simpatia. Tutto questo all’inizio non era affatto scontato. Ad affollare piazza Maggiore c’erano numerosissimi giovani (ma anche molti dei loro genitori, e non pochi nonni, entusiasti all’idea di tornare a vedere tanti ragazzi in piazza, e speranzosi di poter passare loro il testimone) tenuti insieme da un obiettivo non dichiarato, ma non per questo meno evidente: spronare, o addirittura costringere il Pd e i suoi alleati (sin lì a dir poco frastornati, e persi in discussioni oziose sul significato locale o nazionale da attribuire al voto imminente) a non comportarsi come se considerassero ineluttabile la sconfitta. A battersi. E non solo in nome dei buoni risultati che può vantare il presidente uscente Stefano Bonaccini, sui quali molte sardine potrebbero avere le loro perplessità, ma anche, e forse soprattutto, in nome di un modo di governare ma pure di stare insieme della gente, di una storia, di una tradizione ammaccata, sì, ma comunque viva. Tenendo bene a mente che cosa significherebbe quella che in altri tempi si sarebbe chiamata «la caduta» dell’Emilia rossa, non più un «modello», se mai lo è stato, ma di sicuro l’ultimo solido riferimento storico e politico per quel che resta della sinistra italiana: un disastro di proporzioni incalcolabili per la sinistra medesima, la testimonianza ufficiale che, per Matteo Salvini e pure per Giorgia Meloni, la strada è ormai spianata.

Lanciato per la prima volta in piazza Maggiore, questo messaggio ha raggiunto e convinto tante altre piazze, anche lontane dall’Emilia-Romagna, perché è rivolto, oltre che alla sinistra propriamente detta (che peraltro nessuno sa dove risieda), a un mondo più ampio, forse, di quanto esso stesso si consideri. Con l’ambizione neanche troppo implicita di tornare a mobilitarlo per una (ri)civilizzazione della politica, e comunque di sottrarlo all’afasia che da tempo lo affligge di fronte al dilagare del sovranismo nazionalista e dei suoi derivati, dall’attesa dell’«uomo forte» in arrivo all’ingaglioffirsi, magari in nome della lotta al «politicamente corretto», dei contenuti e dei toni della lotta politica.

Il movimento delle sardine non ambisce a farsi partito (e sarebbe una curiosa ambizione, visto che è nato e si è sviluppato tanto in fretta proprio perché la figura stessa del partito specie a sinistra ha perso consistenza), ma a disegnare un campo di gioco diverso da quello, ai limiti dell’impraticabilità, in cui prosperano sovranismi e populismi. Esprime, come è giusto che sia, soprattutto domande, lasciando alla politica, se esiste ancora, il compito di provarsi a evaderle. Non è ovviamente un movimento di moderati, ma è, almeno potenzialmente, più moderato che estremista, animato dai figli (colti) di quei ceti medi urbani (colti) che in passato sono stati la vera forza propulsiva del centrosinistra italiano. Se otterrà un risultato politico spendibile, sarà quello di farli tornare in scena. Molto, ma molto più difficile sarà trovare qualcosa da dire alle periferie delle grandi città e ai piccoli centri delle province, a quel popolo e a quei giovani, cioè, con i quali la sinistra e il centrosinistra hanno divorziato davvero, e che dalle sardine, sono lontani mille miglia.

CORRIERE.IT

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