Le notti dei lunghi coltelli dentro i 5 stelle

Nel buio ovattato dei giorni di Natale si consuma la scissione per ora solo personale di due big, che si allontanano dal mondo pentastellato con l’implicita promessa del lavorare per non rimanere soli nel loro esilio. Il primo all’ombra del cenone natalizio, il ministro Fioramonti, che nel giro di 48 ore lascia il governo, poi abbandona i 5 stelle e poi inizia ad architettare gruppi a sostegno di quello stesso premier al quale ha detto arrivederci e grazie. Un segreto di Pulcinella nonostante le smentite di rito di entrambi (quella del premier nella liturgia urbi et orbi della conferenza di fine anno). Il secondo in prossimità della notte di San Silvestro, proprio quel senatore affatto semplice Paragone, buttato giù dalle barricate della purezza radicale sulle quali si era insediato da una decisione dei probiviri piovuta come una rana dal cielo, con una tempistica quasi insensata o forse molto sensata.

C’è la parte visibile, in questo che sembra un collasso dall’interno della forza politica che fu al 33%. E poi ce ne è una nascosta, che arriva a toccare il sancta sanctorum del M5s. L’altra “scissione” a consumarsi è quella tra Davide Casaleggio e Beppe Grillo. Sulla pecunia, giacché il primo avrebbe chiuso al secondo il rubinetto delle spese legali, fino a oggi in carico a Rousseau. Adducendo tra i motivi il mancato pagamento del gettone mensile da parte di una grandissima fetta di quei parlamentari che, per contratto pre-elettorale, dovrebbero sborsare 300 euro al mese per rimpinguare le casse dell’Associazione.

La caduta dall’Olimpo dell’intangibilità di Casaleggio jr. è un fatto completamente nuovo nell’universo pentastellato. La spinta è data dalla polemica politica delle accuse di conflitto di interessi per aver contribuito a stilare il programma della ministra a 5 stelle Paola Pisano “sull’innovazione tecnologia e digitale del paese”, guarda caso i temi di cui la sua società notoriamente si occupa. La normalizzazione, il burrone del “politico qualunque”, viene raggiunto con il comunicato con il quale il figlio del visionario si è dovuto difendere dagli attacchi, come fosse un “piddino” qualsiasi attaccato dalla furia movimentista, appena qualche mese fa. E poi il contratto da 600 mila euro delle navi Moby, e le prime accuse di ex pentastellati su come Pietro Dettori, socio fondatore di Rousseau, abbia fatto da cinghia di trasmissione tra clienti della Casaleggio Associati e parlamentari. Seconda smentita. La terza è arrivata sui veleni tutti interni di un gruppo di onorevoli che non capiscono dove vadano a finire i loro soldi, chi comanda veramente, che strade prenda l’obolo che versano mensilmente alla piattaforma online: “Per le attività di Rousseau e per il Movimento non sono mai stato retribuito – si è difeso lo ieratico imprenditore – se non dalla soddisfazione di aver contribuito ai risultati ottenuti. La Casaleggio Associati non gestisce in alcun modo soldi dei parlamentari o del Movimento 5 stelle”.

È partito dal denaro il Movimento 5 stelle, nel 2013, quando per ogni fuoriuscito partiva automaticamente l’accusa “non vuole restituire”. Cinque anni d’opposizione e due governi dopo, è tornato lì da dove aveva iniziato, con il dito puntato su Fioramonti e il portafoglio ancora gonfio, il frontale contro i neo leghisti Grassi e Urraro, prestatisi al “mercato delle vacche” sul quale “la magistratura dovrebbe far luce”. Follow the money, l’antica regola della politica che nei 5 stelle può essere letta sia nel modo classico (l’affaire Casaleggio) sia nel modo tutto loro che hanno i vertici 5 stelle (da Grillo a Di Maio la musica non è cambiata) di puntare il dito contro reprobi e peones e sfornare la sentenza dell’interesse pecuniario, con o senza prove non importa.

Nel cupio dissolvi del partito andato in scena in queste vacanze natalizie, l’unico che sembra tenere almeno una parte del mazzo di carte in mano è Di Maio. Che ha deciso come risposta di riempire prepotentemente la scena, e ha scelto la linea del pugno duro. I probiviri che hanno fatto fuori Paragone non si sono riuniti. Una girandola di telefonate triangolate con Pomigliano è bastata a risolvere una pratica il cui procedimento, seppur esista davvero un procedimento, rimane avvolto nel mistero. Di fronte allo sbriciolamento delle ali estreme, il capo ha scelto la mano pesante. Ancora i soldi, con la stretta sulle mancate restituzioni, “piaga” che affligge il gruppo parlamentare da inizio legislatura, per le quali sono in arrivo sospensioni per i morosi. E nuova radicalizzazione sui temi, a partire dall’ennesimo rilancio su Autostrade e sulla revoca delle concessioni ai Benetton.

Forse un rilancio fuori tempo massimo, visto che Paragone è deciso a resistere, ha annunciato ricorsi alla magistratura ordinaria, ma la sua battaglia ha il sapore di strategia politica per massimizzare il momento, più che di reale convinzione nel poter essere nuovamente accolto, e già viene accreditato di tessere la tela di una scissione dell’ala radicale. La difesa di Barbara Lezzi, ma soprattutto di Alessandro Di Battista.

A preoccupare maggiormente è però l’altro smottamento, quello dei fioramontiani eco-sinistrorsi, pronti a uscire dal gruppo per dare vita a una compagine pro Giuseppe Conte, in un cortocircuito di senso logico che si spiega solamente pescando nell’iper tatticismo della politica nostrana. Il presidente del Consiglio smentisce pubblicamente, osserva privatamente, un po’ lusigato dal potenziale crearsi di una base parlamentare che possa fungere da primo mattone per una futura carriera politica, un po’ preoccupato che l’indebolimento di Di Maio non prenda una china troppo ripida, indebolendo fatalmente il suo governo.

Nell’entourage di Di Maio si definisce Fioramonti come uno che “confonde il mito con la mitomania”. “Mi sono stufato di chi parla solamente per visibilità. Nel Movimento stiamo facendo tanto, ci sono moltissime persone che lavorano, dobbiamo mettere al centro loro e i loro e nostri risultati”, ragiona in queste ore il ministro degli Esteri. Che in quanto tale si ritrova uno spinosissimo caso Libia fra le mani. Dopo la visita gravida di promesse e buoni propositi a Tripoli e Bengasi di appena una decina di giorni fa. E dopo l’ok del parlamento turco ad intervenire manu militari nel paese della sponda sud del Mediterraneo, stravolgendo equilibri già fragili e minando il tentativo di Roma di ritornare centrali in quello scacchiere.

L’HUFFPOST

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