Gli immigrati in Italia: che cosa dicono i numeri
Il ritardo costante e la mancata programmazione del decreto flussi (ultimo nell’aprile scorso) non facilitano il reperimento di manodopera. E giustamente chi ha un’azienda, e non riesce a coprire i profili lavorativi di cui ha bisogno, ne sollecita l’allargamento delle maglie. I nostri connazionali che si lamentano, a torto, del lavoro loro sottratto mai si adatterebbero a mansioni riservate ormai solo agli immigrati. Un apprezzato imprenditore marchigiano dell’agroalimentare Giovanni Fileni («Scegli il bio», recita lo spot) confessa che senza immigrati avrebbe già chiuso. Sono rari i suoi conterranei che accettano di lavorare in un pollaio, seppure biologico. L’amministratore delegato della Fincantieri, Giuseppe Bono, ha spiegato che nei prossimi due o tre anni avrà bisogno di almeno 6 mila lavoratori, operai, tecnici, saldatori, ma non sa dove trovarli. In Italia il numero delle (dei) badanti, è ormai superiore al milione. Quasi il doppio dei dipendenti del sistema sanitario nazionale. Se si fermassero tutti insieme tante famiglie sarebbero alla paralisi, nella disperazione.
L’Istat ha appena aggiornato i dati sulla popolazione italiana. O non li leggiamo oppure ci siamo già fatalmente rassegnati al declino. A cominciare da coloro che invocano «prima gli italiani», che sono sempre di meno. Al primo gennaio del 2019 eravamo residenti in 60 milioni 359 mila 546. In un anno 124 mila in meno. Ma il saldo naturale (vivi e morti) è ancora peggiore. Nel 2018 era negativo per 193 mila 386 unità. I nati vivi nel 2018 (439 mila 747) sono al minimo dall’Unità d’Italia. Il tasso di fecondità è 1,32 per donna. Dovrebbe essere superiore a 2 per garantire la stabilità della popolazione. «Ultimi gli italiani», senza volerlo. Questo è lo slogan vero.
La popolazione straniera residente era pari, alla fine del 2018, sempre secondo i dati Istat, a 5 milioni 255 mila 503 unità, l’8,7 per cento del totale con un incremento di 111 mila unità, senza tenere conto ovviamente degli irregolari. La Svizzera è al 25 per cento; la Germania all’11,7. Siamo all’undicesimo posto in Europa per presenza di immigrati. Nel 2018 i nuovi permessi di soggiorno rilasciati ai cittadini non comunitari sono stati 242 mila, il 7,9 per cento in meno rispetto a un anno prima. Il sollievo di meno sbarchi, meno arrivi per la prima volta dall’Africa — di cui si è parlato tanto in questi giorni — è compensato dalla constatazione, più amara e silenziosa, che l’Italia come terra di emigrazione non sia più così tanto attrattiva. Perché non cresce. E, infatti, aumentano dell’1,9 per cento i nostri connazionali che si trasferiscono all’estero in cerca di un lavoro. In realtà sono molti di più perché le statistiche registrano solo le cancellazioni all’anagrafe. Oltre il 65 per cento dei nuovi permessi a immigrati è andato a persone con meno di 30 anni. Mentre i nostri giovani — l’emergenza emigrazione di cui non ci occupiamo — soprattutto laureati e in particolare dal Sud se ne vanno in massa. Il saldo migratorio, da anni ormai, non compensa la negatività del saldo naturale. Fa peggio di noi, in Europa, solo la Romania che è un Paese a fortissima emigrazione. Insomma, non c’è una invasione, semmai una lenta inesorabile evacuazione.
Qualche riflessione in più, pacata e non strumentale, sul tema dell’immigrazione (la necessità di avere manodopera di qualità, programmando gli arrivi) e dell’emigrazione, soprattutto dei nostri giovani laureati, guardando al futuro del Paese, al suo benessere reale, sarebbe opportuna. Vivere di slogan, false percezioni e pregiudizi, è il modo migliore per invecchiare ciecamente, impoverendosi nel rancore, lasciando in eredità non solo debiti ma anche l’incapacità di capire l’evoluzione futura del Paese. Una società multietnica è inevitabile. Bisogna solo scegliere se governarla o semplicemente subirla.
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