PA: dalla carta al digitale benefici per 25 miliardi l’anno. Gli interventi da fare
L’anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr)
È stata istituita nel 2005 presso il Ministero dell’Interno e sviluppata da Sogei. Avrebbe dovuto completarsi entro il 31 dicembre 2014, ma a ottobre 2016 solo l’eroico Comune di Bagnacavallo era entrato in Anpr. Dopo aver speso 23 milioni di euro, il progetto è decollato tre anni fa, tirando fuori altri 14 milioni, individuati in un capitolo dei Fondi di Coesione, e messi a disposizione dei Comuni. Oggi sono 5.300 i Comuni entrati nella piattaforma, mentre l’obiettivo di coinvolgere tutti gli 8.000 Comuni e i 60 milioni di cittadini dovrebbe essere raggiunto entro il 2020, ma su tempi e scadenze non sono stati presi impegni. Nel frattempo è complicato controllare se chi chiede il reddito di cittadinanza è residente in Italia da dieci anni; mentre lo studente universitario a carico di genitori benestanti può tranquillamente dichiararsi single e usufruire di sconti e agevolazioni. Come è noto la tassazione dipende spesso dal nucleo familiare e l’Anagrafe nazionale della popolazione residente è uno strumento fondamentale per la lotta all’evasione fiscale.
La banca dati delle prestazioni sociali
Prendiamo un cittadino sotto la soglia di povertà: il Comune magari gli garantisce la casa popolare, la Regione un bonus per l’iscrizione dei figli al nido, l’Inps un’altra forma di indennità. Ma quanto gli sta dando lo Stato nell’insieme nessuno lo sa. Negli anni alle prestazioni pensionistiche finanziate dai contributi si sono affiancate altre prestazioni sociali, che si sono di fatto sommate e sedimentate nella legislazione, senza che sia mai stata prevista una razionalizzazione o che si istituissero controlli «incrociati» tra i diversi enti erogatori, favorendo così furbi ed evasori a danno dei più bisognosi. Parliamo di una spesa in prestazioni per 110 miliardi e in continua crescita: più 5% negli ultimi anni. Eppure l’istituzione di un «casellario dell’assistenza», sul modello di quello già in uso per pensioni e pensionati, fu previsto nel 2005, ma poi non se ne è fatto nulla.
Banca dati della domanda/offerta di lavoro
I centri per l’impiego non riescono a far incontrare l’offerta di lavoro delle imprese con le ricerche dei lavoratori fra le diverse Regioni, e spesso nemmeno fra una Provincia e quella confinante. Questo succede perché ogni Regione ha la sua banca dati (in Lombardia ce n’è addirittura una per Provincia), e sono tenute a inviare le informazioni ad Anpal (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro) che a sua volta dovrebbe renderle visibili su tutto il territorio nazionale. In realtà il sistema non funziona. Con una banca dati nazionale l’incrocio domanda/offerta sarebbe invece immediato. Il problema è che il lavoro è materia concorrente Stato-Regioni e, quindi, ci vuole un accordo che impegni tutte le Regioni a condividere i dati. Un tema su cui si litiga da 25 anni, dai tempi del Sistema informativo lavoro e della Borsa lavoro, e intanto la disoccupazione giovanile supera il 28%.
Il casellario dei lavoratori attivi
La sua funzione principale è rispondere alle seguenti domande: i miei datori di lavoro, presenti e passati, hanno versato tutti i contributi? E a quale pensione avrò diritto a fine carriera? Nell’Anagrafe, attivata dall’Inps nel 2005, dovrebbero confluire i dati di tutte le categorie di lavoratori: pubblico, privato, autonomi, e iscritti agli ordini professionali. Questi ultimi fanno acqua e poi mancano i dati di oltre 3 milioni di dipendenti pubblici. Basta quindi avere lavorato in passato per un paio d’anni come insegnante per non riuscire ad avere una ricostruzione completa della propria situazione. Inoltre anche i dati sui contributi versati dai lavoratori privati spesso vengono caricati in ritardo. Se la banca funzionasse, non solo si potrebbero vedere tutti i dati aggiornati in tempo reale, ma anche quanti lavoratori sono a tempo pieno, quanti part time e quanti in infortunio, e quindi definire meglio le politiche.
Il fascicolo sanitario elettronico
Se risiedo in Veneto e ho un problema di salute mentre sono in Campania il medico può vedere la mia storia sanitaria, gli esami che ho fatto, i referti precedenti? La risposta è no. Il Fascicolo sanitario elettronico è stato istituito nel 2015: oggi lo hanno 13 milioni di cittadini e 12 Regioni possono condividere in totale o in parte i loro dati. Il problema è che molti ospedali non hanno gli applicativi per interrogare il Fascicolo e quindi per il paziente è come se non esistesse. E pensare che uno dei Paesi più avanzati nella digitalizzazione degli ospedali è la Turchia! Gli ospedali vengono certificati da un ente non profit internazionale (Healthcare information and Management Systems) con una scala da zero a 7. A livello 6 in Turchia ci sono 171 ospedali contro i 6 dell’Italia: (Humanitas (privato, Milano) Poliambulanza Brescia (privato), Vimercate Asst (pubblico, Monza e Brianza), Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia (pubblico), Istituto Oncologico di Candiolo in Piemonte (privato), Cure Ortopediche Traumatologiche (Messina). A livello 7 in Turchia gli ospedali sono 3, in Italia nessuno.
L’Identità digitale
Si chiama «Spid» e serve a certificare che «io» sono davvero «io» quando faccio un’operazione online, ovunque mi trovo e da qualunque dispositivo: dal pagamento in banca alla richiesta di un documento, per le prenotazioni sanitarie, iscrizioni scolastiche, pratiche d’impresa. La privacy garantita poiché non è consentito nessun tipo di profilazione, e si utilizza una password unica e blindata. Oggi in Italia, per 60 milioni di cittadini, abbiamo un miliardo di identità digitali, ovvero altrettante password. Un sistema inefficiente e insicuro.
Da dove partire
Da fine 2019 il team digitale è stato incardinato come dipartimento presso la Presidenza del Consiglio, e la ministra per l’innovazione Pisano ha presentato il 17 dicembre un piano strategico da realizzare entro il 2025. Ma che succede se il governo cambiasse colore? Oggi nei bilanci della Pa il digitale vale meno dell’1%, cioè spendiamo meno della metà di Francia e Germania. Secondo Confindustria Digitale per portarci ai livelli dei nostri partner europei dovremmo investire 10 miliardi di euro in un piano condiviso da tutti i partiti, vincolante e con obiettivi e tempi definiti.
Intanto si possono fare alcuni interventi:
1) Spegnere gli 11 mila Centri Elaborazione Dati dei Comuni, che mobilitano ingenti risorse e sono pure attaccabili dagli hacker, per sostituirli con soluzioni cloud.
2) Usare tutti i fondi Ue.
Per il settennio 2014-2020 l’Europa ci ha messo a disposizione 2,3
miliardi di euro per l’attuazione dell’Agenda Digitale e a ottobre 2019
poco meno di un miliardo era ancora da assegnare per mancanza di
progetti da finanziare (Fonte: Open Coesione).
3) Assunzione di personale specializzato. Nel Regno Unito la struttura Digital Government Services ha 800 persone dedicate, da noi sono poco più di un centinaio, ne dovrebbero arrivare altre cento nel 2020 e altrettante nel 2021 e 2022. Ma per ora ci sono gli annunci della Ministra.
4) Gare più veloci e trasparenti.Secondo la Corte dei Conti i bandi di gara in questo settore nelle amministrazioni pubbliche possono durare dagli 11 ai 24 mesi. Vuol dire che si installano tecnologie già vecchie. La trasparenza e il controllo nelle assegnazioni è cruciale, poiché le truffe e raggiri sono facili quando ci sono di mezzo beni immateriali come programmi e servizi informatici.
5) Condivisione e integrazione delle banche dati. Troppi enti si tengono stretti i loro dati e non li condividono con nessuno, perché rappresentano «potere», un sistema quindi da spezzare. Questa urgente riforma strutturale crea lavoro e renderebbe il Paese più efficiente. Se tutto questo non avviene la colpa è anche nostra: abbiamo scelto gli amministratori sbagliati.
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