Governo, a prescindere

Dunque i decreti sicurezza (prima richiesta delle sardine) si cambieranno magari dopo l’Emilia – da quelle parti la sicurezza hard piace, meglio non rischiare – recependo le indicazioni del capo dello Stato, ma non c’è fretta e senza specificare, come perché quelle indicazioni possono essere interpretate in senso più largo e più stretto; la prescrizione è innominata, dopo il fragile compromesso raggiunto su cui aleggiano dubbi di costituzionalità; il reddito di cittadinanza non è sbagliato perché in fondo è una misura che risponde a una “domanda di protezione”, anche se blocca sette miliardi che il Pd, fino a poco tempo fa, chiedeva di destinare altrove. Amen.

Si chiama realismo, fare di necessità virtù, logica adattiva: di fronte all’impossibilità di cambiare, si dice che è la cosa giusta con l’idea che si deve costruire una alleanza, dando alla prospettiva una dignità politica. La crisi dei Cinque stelle suggerisce che linea ha prodotto dei risultati, il malessere nel paese che si incanala a destra, anche sulla protesta fiscale, chissà. Il Pd farà, nel corso della verifica, tante buone proposte, ma con l’idea di evitare terreni di conflitto, senza stressare troppo il rapporto con l’alleato. Detta in modo tranchant: il governo deve essere, innanzitutto, “l’incubatore di una nuova alleanza”, il che suona come una rivoluzione copernicana di uno schema che vede nei partiti il baricentro dell’iniziativa. Alleanza favorita dalla legge proporzionale come incubatrice anch’essa di un nuovo bipolarismo, perché – questo il ragionamento – i Cinque stelle, anche quelli che vogliono andare col Pd, non possono dirlo e allora occorre fare una legge che consenta loro di andare da soli per poi fare l’alleanza dopo.

Tutto questo è esattamente l’opposto, in termini di cultura politica, di ciò che il Pd ha detto solo qualche settimana fa nel suo seminario a Bologna. Lì si partiva dall’elogio del conflitto, da Gramsci, qui dal personalismo cristiano e da Mounier, lì dall’idea sviluppista e redistributiva, qui da una visione “protettiva” e un po’ paternalistica dello Stato. Lì Corbyn, qui Zaccagnini. In attesa che Zingaretti faccia una sintesi di questo congresso strisciante e non dichiarato, in cui quel che è in ballo l’identità stessa del Pd, se cioè il partito la plasma partendo dal governo come variabile indipendente o se parte da un suo profilo autonomo che sta al governo finché compatibile con i propri obiettivi e le sue ragioni di fondo.

E allora, la domanda è conseguente: è quella di oggi l’impostazione di tutto il Pd? La risposta è no. Anzi, ad ascoltare gli interventi nel corso della giornata si capisce che c’è davvero materia per un congresso franco e schietto. L’ex ministro Padoan e l’attuale ministro Lorenzo Guerini ricordano che “la protezione non basta, c’è anche la crescita” e senza crescita è complicato anche proteggere. Laura Boldrini ricorda che “la discontinuità del linguaggio non basta in termini di sicurezza”. Bastava intercettare le chiacchiere tra Valeria Fedeli e Carla Cantone, due ex Cgil per capire quanto fuoco ci sia sotto la cenere: “A me – dice la rossa Fedeli – hanno insegnato che un partito non è la comunità di Sant’Egidio… La carità non basta, serve crescita e welfare”.

In conclusione, la sintesi è questa. Fosse stato per Conte, si sarebbero rinviati verifica e dibattito a dopo l’Emilia. Il Pd almeno un minimo di dibattito lo ha tenuto vivo. E un clima così non si vedeva da tempo: un agglomerato di bande, fino a poco tempo fa, si è riunito in un convento al gelo, in un clima di grande serietà come una comunità che si rispetti. Il governo è blindato, così come l’asse strategico dell’alleanza con i Cinque stelle. Questa la fotografia. Che sia una linea o una bolla rispetto al mondo fuori dall’abbazia è altro discorso, affidato al tempo e al popolo, che ultimamente sui governi “a prescindere” ha reagito con una certa insofferenza.

L’HUFFPOST

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