Il ritorno (politico) dell’idea di centro

Le cose andarono diversamente. I tentativi di cambiare la Costituzione fallirono uno dopo l’altro. E il riflusso portò col tempo a una serie di riforme del sistema elettorale che ne indebolirono progressivamente la componente maggioritaria. Chi si limita a dire che qui da noi l’esperimento maggioritario «non ha funzionato» non coglie il punto. In primo luogo, sottovaluta il fatto che proprio grazie alla legge maggioritaria l’Italia ha conosciuto, per un breve periodo, l’alternanza al governo fra coalizioni contrapposte. Il contrario di quella logica trasformista che ha consentito il passaggio dal Conte1 al Conte2 e che, certamente, sarà l’unica vera «regola del gioco» nella formazione dei governi per i decenni a venire. Ciò che invece «non ha funzionato» è che l’esperimento maggioritario riguardò solo il metodo di votazione, non venne accompagnato da una coerente riforma della Costituzione.

Continuo a pensare che le (compiute) democrazie maggioritarie, essendo democrazie governanti (con governi forti), abbiano più chance di stabilità e di buon governo rispetto alle democrazie assembleari e acefale. Certo, di tanto in tanto può benissimo vincere un Trump. Ma nel lungo periodo, la democrazia maggioritaria favorisce moderazione e convergenza al centro. Per inciso, se i democratici americani fossero capaci di scegliere un credibile candidato centrista potrebbero battere — forse senza troppe difficoltà — il presidente uscente.

Ma poiché il tema della democrazia maggioritaria non riguarda più l’Italia, tanto vale smettere di occuparsene. Adesso bisogna cercare di cavarsela con ciò che c’è, con ciò che passa il convento. Ci piaccia o non ci piaccia. E allora bisogna dire che una democrazia acefala è una democrazia a rischio e solo la nascita di una formazione politica «centrista» , elettoralmente consistente, può stabilizzarla. Ma — si domanderà qualcuno— perché a rischio? Non è forse la stessa democrazia che dura dal 1948? Sì, ma le condizioni sono cambiate. Non ci sono più i grandi partiti di un tempo, con un fortissimo radicamento sociale, a compensare le debolezze del nostro regime costituzionale. Soprattutto, non ci sono più i potenti sostegni internazionali di cui la democrazia italiana ha per tanto tempo goduto. Siamo entrati in acque turbolentissime (si pensi, ad esempio, ai pericoli connessi alla situazione libica) e la democrazia acefala è una fragile barchetta, non un bastimento solido in grado di fronteggiare le tempeste. Per fortuna — checché ne dicano i professionisti dell’allarme democratico — non è ancora apparso nessuno all’orizzonte che, anziché limitarsi a fare battute più o meno autolesioniste sui «pieni poteri», riesca a prenderseli senza nemmeno fiatare.

Il tutto per dire che se la democrazia acefala, con tanto di proporzionale pura, è ciò che passa il convento, allora le serve un partito di centro con forte seguito elettorale. Non è garantito che possa emergere e affermarsi. Inoltre, bisogna ricordare che si tratterebbe solo di fare di necessità virtù. Perché una formazione di centro ha, necessariamente, le sue magagne. Essa è, per definizione, il prezzemolo, indispensabile in qualunque combinazione di governo. Un partito centrista di un qualche peso cambierebbe alleanze di governo (magari anche più di una volta) nel corso di una stessa legislatura sulla base delle sue momentanee convenienze. Darebbe alla democrazia acefala il baricentro che le serve per durare ma al tempo stesso sarebbe il ricettacolo e il motore di ogni trasformismo parlamentare. Un partito di centro sarebbe «condannato» (sic) ad essere sempre al governo insieme a questo o a quello. La storia italiana del XX secolo ci ricorda che chi è inamovibile, chi è sempre al governo, finisce, nel lungo periodo, per mal governare. La sentenza della Corte è l’ultimo atto. Il menu prevede una sola minestra.

CORRIERE.IT

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