Morto il filosofo Emanuele Severino
Citando un verso di Archiloco, Isaiah Berlin ha una volta provato a distinguere i pensatori in volpi e ricci, tra chi «sa molte cose», inseguendo la realtà in tutte le sue diramazioni, e chi invece «sa una sola cosa, ma grande». Emanuele Severino — scomparso il 17 gennaio a quasi 91 anni — appartiene a pieno titolo al secondo gruppo, in compagnia di un altro riccio per eccellenza, Parmenide, al quale aveva dedicato il saggio Ritornare a Parmenide («Rivista di filosofia neoscolastica», 1964).
Nei tanti libri pubblicati e nelle tante conferenze tenute (Severino era tra le altre cose un ottimo oratore), la sua riflessione si è sviluppata intorno a un unico problema, quello del divenire e della morte. Con un solo, grandioso, obiettivo: negarne l’esistenza. Il problema degli uomini è la credenza del nulla, l’illusione che tutto ciò che esiste, prima non ci fosse e poi non ci sarà. Dal non essere all’essere e ancora al non essere: è il ciclo della vita che diviene. Questa certezza nell’esistenza del divenire è una forma estrema di «nichilismo» tragico: è nichilismo perché il divenire presuppone il non essere e dunque il nulla (Essenza del nichilismo, Paideia, 1972); ed è tragico perché di fatto riduce la vita ad una corsa verso la morte (il non essere).
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