Morto il filosofo Emanuele Severino
La storia del pensiero occidentale in tutte le sue declinazioni, religiose, scientifiche, filosofiche, è un tentativo di eludere la paura di questo nulla. Per Severino non c’è spazio per tutta questa «follia», per una ragione semplicissima. Il divenire non esiste. L’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere, affermava Parmenide. Dire che l’essere è non essere, o che l’ente è niente, ammettere il divenire insomma, è contraddittorio. L’unica conclusione coerente è, allora, che ogni ente — tutte le cose, ciascuno di noi — è in quanto è ente: e se è, è eterno, non viene all’essere (non nasce) e non finirà nel nulla (non muore).
La morte non esiste, è solo un abbaglio di chi non ha capito che cosa vuol dire «essere». Si pensa alla vita come a un film, in cui fotogrammi scorrono verso una conclusione, senza rendersi conto che tutti i singoli fotogrammi sono sempre lì e niente passa o si perde. Illusi dai loro errori gli uomini si angosciano per la morte e non si accorgono che sono già da sempre salvi, «nella Gloria e nella Gioia» (La gloria, Adelphi 2001; Storia, gioia, Adelphi 2016).
Nel 1970 la Congregazione per la dottrina della fede dichiarò che la filosofia di Severino era incompatibile con la rivelazione cattolica, costringendolo a lasciare l’Università Cattolica di Milano e trasferirsi a Venezia. C’era del vero nella condanna: il pensiero di Severino è un pensiero del qui e ora, che non demanda a un improbabile aldilà il momento della salvezza. Rinnova il confronto secolare tra religione e filosofia, prendendo le parti della seconda. La filosofia, quando è veramente filosofia, è il tentativo di spiegare — su basi razionali, senza bisogno di rivelazioni o illuminazioni — cosa sia la realtà e quale sia il suo senso. La filosofia è conoscenza e la conoscenza salva, perché ci aiuta a capire come stanno le cose: che non vi è nulla oltre agli enti (le cose, noi), che la morte non esiste, che il paradiso (la Gloria) è qui e ora.
Severino è davvero l’ultimo dei Greci. Anche per questo un altro controverso filosofo del Novecento, Martin Heidegger, s’interessò al suo pensiero (o meglio alle critiche che Severino gli aveva rivolto nella sua tesi di laurea), riconoscendone l’importanza. È una notizia recente, che però non sorprende, vista la convinzione di entrambi che l’Occidente avesse preso una strada «folle» nel momento in cui aveva deciso di sostituire a Dio la tecnica, credendo di poter risolvere in questo modo i problemi del nostro tempo (Il destino della tecnica, Rizzoli, 1998). Del resto, al netto delle pur fondamentali differenze (per Severino neppure Heidegger è stato capace di uscire dal nichilismo: anche lui, insistendo sulla dimensione temporale dell’essere, è rimasto intrappolato nelle secche del divenire), il suo pensiero va incontro a difficoltà analoghe a quelle di Heidegger.
Nel mondo di Severino non c’è spazio per la politica, intesa come cambiamento dell’esistente (Il tramonto della politica, Rizzoli, 2017). Quello che serve è uno sguardo capace di contemplare l’eternità. Tutto è, eternamente — un bacio, il terremoto di Lisbona, la pioggia che cade. Sono tesi radicali, oggetto di grandi discussioni, ma coerenti con l’impianto di fondo del suo sistema, e un grande pensatore non rinuncia mai alla coerenza. Del resto non è proprio il compito della filosofia mostrarci che le cose stanno diversamente da come siamo abituati? «Non si tratta di rassicurare il mortale, ma di mostrare la verità del destino». E la verità, osservava Leopardi (di cui Severino ha vigorosamente difeso la profondità filosofica nel libro In viaggio con Leopardi, Rizzoli 2015), non è necessariamente buona o bella, ma non per questo va respinta. Di sicuro lui l’ha cercata per tutta la vita.
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