Ostinato, silenzioso, refrattario agli spin doctor
Comunicazione non come teatro, ma come megafono di ciò che si fa. Vede che la sua avversaria, un po’ scomposta, riceve messaggini dai suoi collaboratori, cerca la polemica, promette l’abolizione dell’Irpef e la sanità modello Veneto. Lui, al massimo della vis polemica si concede questo: “È paradossale che proprio il governo gialloverde ha riconosciuto l’Emilia benchmark sulla sanità”. E fine del talk show.
Ti colpisce, da cronista, che su ogni argomento fa almeno tre esempi, elenca i capitoli di spesa, scende nel dettaglio. Annuisco, ma a un certo punto, confesso, mi perdo. Alla fine della giornata sai tutto anche di Borgotaro e Pavullo, dove saranno riaperti i punti nascita, dell’ospedale di Cesena aperto grazie ai fondi del governo Gentiloni, degli altri aperti in project financing, dell’idea di una metro di superficie sulla via Emilia e dei 49 milioni sulla metro-mare che unisce Rimini e Riccione e toglie 15mila macchine dalla strada della sanità, dove a differenza del Veneto e della Lombardia, il privato è il 20 e non il 50 per cento e “non esistono cittadini di serie A e di serie B”. La sua è l’Emilia dei record, per tassi di crescita, occupazione, export, superiore alla Lombardia e al Veneto. Questa è la sua campagna: Pil contro populismo, statistiche come munizioni per resistere nella battaglia di Stalingrado: “Ma chi l’ha detto – dice sincero – che questa non è emotività ed è freddezza? L’orgoglio di risultati conseguiti non da me, ma da una regione, da una comunità, non è forse emotività e passione?”.
Al secondo caffè della giornata, il secondo di una decina, all’aeroporto di Bologna scambia due chiacchiere prima di una conferenza stampa: “Non mi va di attaccare, non è nel mio stile, a me dispiace anche quando la critico la Borgonzoni, io parlo dei problemi e delle soluzioni, vorrei un confronto oggettivo”. Pensi che sia un po’ una posa, ma non è così, lo capisci dai consigli degli spin doctor che franano, dai racconti dei cronisti locali, dai discorsi di quelli del suo partito: “La cosa che mi fa più male è che a questi non gliene frega niente dell’Emilia. Salvini il 27 non ci sarà più, come è giusto che sia, e se vince resterà lei, che come hai visto…”. In tutta la giornata questa espressione è il massimo della gergalità, mai una parolaccia, neanche per sbaglio. Gli nomini Salvini e ti guarda come il prete se fosse entrato un turco in chiesa.
All’aeroporto, dicevamo, si inaugura una roba che pare Los Angeles, il People Mover, una navetta su rotaia che collega l’aeroporto alla stazione centrale, in sette minuti. Non è poca cosa, per il turismo, il business, eccetera eccetera. È uno di quei set in cui Berlusconi si sarebbe vestito da capotreno, Salvini avrebbe fatto una diretta facebook. Bonaccini, a un certo punto, cammina da solo sul binario, risponde a qualche messaggio, fa qualche telefonata. Le telecamere lo inseguono, i fotografi gli chiedono di mettersi in posa. Lui sale in macchina e parte una lezione sulle infrastrutture, con la testa alla prossima opera. È così uno che non sa vendere la merce che ha. Sali sulla macchina e, vedendo che non è blu, apprendi che le auto-blu sono state abolite quando si è insediato, chiedi lo stipendio e apprendi che se lo è tagliato appena diventato presidente, parli col portavoce Stefano e scopri che si è messo in ferie per dedicarsi alla campagna elettorale e non creare conflitti col suo lavoro in regione. Bonaccini parla distrattamente mentre chatta sul telefono, risponde a chi gli manda messaggi, personalmente, senza agenzie di comunicazione. È il suo modo per scaricare i nervi. E senza staff elefantiaci, “bestie”, codazzi. La macchina la guida un parlamentare, Andrea Rossi, uno di quegli emiliani che ha testa politica ed è una specie di Mr Wolf. Davide, la sua ombra, è un collaboratore storico, in grado di approfondire un dossier in cinque minuti. Il cappotto, attenzione al cappotto, dettaglio che rileva l’attitudine baronale del potere (andate a vedere una campagna), nella misura in cui c’è qualcuno che te lo regge, Bonaccini se lo mette e se lo toglie da solo, poggiandolo sotto la sedia nelle varie iniziative. E il caffè, anche al primo confronto mattutino, se lo va a prendere da solo alla macchinetta: “Presidente – gli dice uno della tv – sa, come l’altra candidata, su quali argomenti discuterete”. Risposta: “Chiedetemi quello che volete”. Nell’attesa, ricorda che, nel lontano 1990, era assessore a Campogalliano, qualche anno prima si era iscritto al Pci con Berlinguer: “Allora alle elezioni il tema era solo di quanto vincevi, ora siamo controvento. Ma se resti sottocoperta la politica non ha più senso”. Ovviamente arriva con cinque minuti di anticipo, la sua avversaria con dieci di ritardo, poi la saluta cordialmente.
E di nuovo in macchina. Andrea Rossi, che mentre guida, parla al telefono e pianifica l’agenda, a domanda (della tv) sulle caratteristiche di Bonaccini, ha scritto, in una specie di report: “Un uomo normale”. È così: una campagna normale, di un uomo normale, in tempi eccezionali: “Ma sai – racconta Bonaccini – quando in giro per l’Italia parlo delle difficoltà qui, mi prendono per matto, perché dicono “se quella è la crisi, noi che dovremmo dire?”. Ecco, ci risiamo, i fatti e il salvinismo, la testa dura e la rappresentazione scenica: “Ma lo sai che in interi settori, come l’ortofrutta e la manifattura, servono immigrati perché gli italiani non lo fanno più? Questa è la verità. Per l’amor di Dio non voglio dire che va tutto bene, dico che tutto si può migliorare. Seguimi, però: Salvini non rappresenta una rabbia basata sulla fame, ma una rabbia di chi dice agli artigiani e agli imprenditori: cambiamo questo sistema e creiamo un nostro sistema di potere. È cosa diversa dalla retorica della rivolta dei ceti piegati della crisi”.
A Reggio Emilia la piazza non è grandissima, ma è piena: “Domani faremo una conferenza stampa, per spiegare che nei prossimi cinque anni aboliamo il costo del trasporto pubblico per gli studenti, autobus e treni. Non era mai successo prima, siamo la prima Regione a farlo”. Altro record, accompagnato dal dettaglio sui capitoli di spesa, buongoverno contro populismo. Testardo, l’Emilia, le cose fatte, le cose da fare. In fondo, è una campagna controvento. Non vuole parlarne più di tanto, ma è una campagna senza il partito di una volta e senza un governo, che pure era nato per incubare l’alleanza in vista della battaglia in Emilia Romagna: “Il più bravo è Speranza. Ha messo la politica in un ministero tecnico”. Sanità, l’ossessione del pubblico, degli ultimi: “Se tagli l’Irpef, devi tagliare il fondo per i disabili, non funziona ed è ingiusto”. Bella la piazza di Reggio Emilia. Con la gente, esce il cuore, la storia, memoria, le emozioni collettive: “Si devono vergognare a dire che ‘vogliono liberare l’Emilia’, nella terra dei fratelli Cervi. Ad ascoltarli c’è da avere paura. E l’Italia assomigliasse all’Emilia sarebbe un paese migliore”.
È tutto qui, il senso della battaglia. Diciamola senza giri di parole: se diventa un plebiscito sul governo, Salvini travolge tutto. Se si vota sulla regione cambia tutto: “La volta scorsa gli elettori ci hanno dato una sberla, ma sapevano che avremmo vinto noi, stavolta partiamo dal dato delle europee dove siamo sette punti sotto”. Però, se si vota sull’Emilia è altra storia. In quel giorno, alle amministrative il Pd andò meglio e ora nella lista Bonaccini ci sono almeno trenta sindaci che, in quella tornata, hanno vinto contro il Pd: “Se arriviamo a 45 è fatta”. E il nervosismo di Salvini dice che è possibile, anzi forse è già così. Di nuovo in macchina, in direzione Piacenza, al settimo appuntamento della giornata. Bonaccini guarda fuori dal finestrino che è già notte, i capannoni industriali, l’Emilia operosa, che esporta: “Diciamoci la verità, non ci meritiamo di perdere”. Poi si rilassa sul sedile. E si addormenta fino all’arrivo.
L’HUFFPOST
Pages: 1 2