Milano, Riccardo Muti trionfa alla Scala con la Chicago Symphony



Legata al suo modo di cercare e trovare la “forma” nelle musiche e di prolungarne nella distensione dell’articolazione la vocazione cantabile, la naturale seduzione coloristica. Se nell’ouverture del wagneriano Fliegende Holländer che apriva il programma dominava il senso panico e rapsodico, nella Symphonie spadroneggiava il contrasto tra lirismo calibrato (indimenticabile il legato degli archi nell’avvio del «Versuchung des heiligen Antonius» del Matis del Maler), patinatura ambrata di colori e chiarezza nel soppesare la nervatura contrappuntistica che qui è ossessiva quanto riposta.

Rilasciando poi le briglie nella Terza prokofieviana ma senza assecondarne la deriva paraespressionista; semmai “normalizzandola” in modo che la trama orizzontale e la coerenza discorsiva dettati dal gesto – da sinfonia autonoma e tradizionale, non da mirabile tadsebao “cavato” dall’Angelo di fuoco – si prendessero progressivamente l’interesse, il cuore e la testa di chi ascoltava. Predisponendo al fuori programma – l’Intermezzo da Fedora di Giordano – presentato come l’intreccio di un omaggio italiano, milanese (l’opera debuttò al Teatro Lirico Internazionale) e ai due maestri amati, Antonino Votto e Gianandrea Gavazzeni, un altro esempio di musica che scavalca l’anagrafe stilistica e che nella tesa espansione esecutiva suonava disperatamente affettuosa, quasi nostalgica.

REP.IT  

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