Al via con Ruffini alle Entrate la grande partita delle nomine

Dalle Entrate passa un pezzo importante della missione politica che Conte si è autointestato con l’ultima manovra, lanciando il Patto “con tutti i cittadini onesti” contro l’evasione. Ma il tema è imprescindibile anche per i 5 stelle, che hanno necessità di rinforzare la strategia contro i grandi evasori, strategia che è di merito e anche di ricerca di consenso. Le nomine all’Agenzia delle Entrate tirano in ballo le tasse e in questo senso anche Pd e Italia Viva vogliono essere protagonisti assoluti della partita. I dem devono provare a far durare la scia dei risultati conseguiti con la manovra, dove si è arrivati a disinnescare 23 miliardi di aumenti dell’Iva. I renziani hanno fatto dell’abbassamento delle tasse una, se non la cifra, della propria esistenza. Leggere sugar tax e plastic tax. Per tutti la grande minaccia è Salvini, che continua a ripetere che le tasse vanno abbassate per davvero. Come funzionerà la macchina del Fisco è determinante. Per la Lega è potenzialmente un’arma in più perché se la macchina si inceppa, allora sarà più facile per il leader del Carroccio insistere su un tasto debole, che è nelle responsabilità del governo in carica.

Si diceva delle contese interne alla maggioranza che hanno tenuto bloccata questa prima tornata per diverse settimane. I renziani hanno spinto fin da subito per il ritorno di Ruffini. Di Maio ha detto no. Il Pd, a cui Ruffini è gradito, ha messo sul piatto la possibilità di spostarsi su un nome terzo, ma ha prima voluto sondare la strada principale, quella appunto della conferma dell’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate. Di Maio ha continuato a dire no, spingendo invece per la conferma dell’attuale direttore, Antonio Maggiore, nominato lo scorso agosto proprio in sostituzione di Ruffini. Anche qui i nomi si intrecciano ai contenuti, meglio al profilo politico che si vuole, meglio voleva, imprimere. Maggiore è generale della Guardia di Finanza. Quando fu eletto, Di Maio disse: “Chi riscuote le tasse deve essere al servizio del cittadino e non il contrario. Per noi gli italiani sono onesti fino a prova contraria”. Una chiara indicazione di quella necessità in capo ai 5 stelle, cioè di non far apparire il Fisco come un cappio al collo degli italiani.

Le altre due caselle, cioè Dogane e Demanio, come si diceva vanno ai 5 stelle. Alle Dogane arriva Agostini. Conosce benissimo il funzionamento della macchina statale. È stato segretario generale al ministero dell’Ambiente quando il titolare era Gian Luca Galletti, governo Renzi. Poi è passato al Cipe, il braccio operativo della programmazione economica del governo. Molto stimato da Conte e da una parte dei 5 stelle. Minenna, invece, è espressione dell’ala dura dei grillini. Quella che a gennaio dell’anno scorso provò a portarlo alla guida della Consob, dove poi prevalse Paolo Savona. 

UN’ONDATA DI NOMINE. Partita lunga e con tantissime poltrone quella delle nomine. Alcune scadenze sono state tamponate con il metodo oramai usuale del governo giallorosso, quello del rinvio. Altre, quelle che contano di più in termini di peso economico, status ed equilibri politici, arriveranno prestissimo, tra marzo e aprile. Poi, fino alla fine dell’anno, ci sarà spazio per accrescere il bottino o per accontentare chi è rimasto deluso, anche se il grosso sarà fatto a primavera. Tra società controllate, dirette e indirette, e Authority i posti sono tantissimi. Gli addetti ai lavori li hanno quantificati in circa 400. Logica vorrebbe che anche un esecutivo fatto da quattro anime, come quello attuale, andasse liscio verso un accordo, seppur dibattuto. Tanti posti, possibilità per tutti. Ma così non è. Le nomine si candidano a essere invece uno dei passaggi a maggior rischio di fibrillazione per il governo e al tempo stesso la dead line della grande questione che grava su di esso: l’obbligo di stare insieme ha ancora ragione d’essere? Detto in poche parole: portate a casa manovra e nomine – da leggere anche in chiave anti Salvini – stare insieme per forza non è più una necessità. Se questo avverrà, lo si capirà tra qualche mese. Ma il tema c’è e non concede tempi lunghi di riflessione.

I primi sprazzi di fibrillazione sono arrivati con la partita delle Agenzie fiscali e anche poco prima, alla fine dell’anno scorso. Ne sanno qualcosa l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e il Garante della privacy. I vertici della prima sono scaduti lo scorso 26 luglio. Da allora si è proceduto di proroga in proroga. L’ultima è arrivata con il provvedimento del rinvio per eccellenza, il Milleproroghe, che ha stabilito la nuova dead line: 31 marzo. Il governo si è preso altri tre mesi, ma la questione è caldissima. Innanzitutto l’Agcom sta operando esclusivamente per gli atti di ordinaria amministrazione e questo rappresenta una mutilazione dei compiti che è chiamata ad assolvere. L’Agcom è il sorvegliante del mondo dei media e delle tlc. Ed essendo la tv inevitabilmente coinvolta nella narrazione della politica, si capisce bene come le decisioni in termini di istruttorie, multe e raccomandazioni abbiano un peso anche sugli equilibri politici stessi. Per scendere nella carne viva della questione, citando un esempio. Appena il 31 dicembre, l’Autorità ha avviato una pratica sulle apparizioni in tv di Salvini, “sempre il più presente sia da ministro che all’opposizione”. Ma al di là delle presenze in tv e della par condicio, l’Agcom richiama a questioni più ampie e anche più pericolose per la maggioranza. Qui il nodo si chiama Silvio Berlusconi e le sue tv. Mediaset sta giocando una partita da player europeo piena di incognite e tutto può permettersi tranne che un Agcom ostile. E poi c’è il punto undici del programma di governo che parla di una nuova legge contro il conflitto di interessi e di riforma del sistema televisivo. Il Cavaliere ha tutto l’interesse a non essere tagliato fuori dalla partita e, viceversa, la scelta che compirà il governo giallorosso renderà chiaro se si è sferrato un colpo netto nei confronti del presidente di Forza Italia oppure no. La questione è ancora in alto mare. Il Pd, secondo quanto riferito da fonti parlamentari accreditate, spinge per Antonello Giacomelli, già sottosegretario al Mise con delega alle Comunicazioni nei governi Renzi e Gentiloni. Un profilo, quello di Giacomelli, che sarebbe gradito a Berlusconi. Ma i 5 stelle dicono no. La partita, poi, è ancora più ingarbugliata perché radicata ancora più profondamente nelle dinamiche di partito. I quattro commissari dell’Agcom sono infatti eletti dal Parlamento, mentre il presidente è indicato dal presidente del Consiglio, d’intesa con il Tesoro e con il parere favorevole delle commissioni parlamentari competenti.

La stessa matassa caratterizza la partita per il Garante della privacy. Anche qui materie delicatissime. Leggere 5 stelle, Casaleggio, il mondo dei data. A dicembre, il Garante ha annunciato l’apertura di un’istruttoria sul caso dell’app lanciata nel 2013 dalla Casaleggio Associati, che secondo le rivelazioni dell’ex dipendente Marco Canestrari avrebbe sottratto dati personali di utenti Facebook. E poi c’è tutta la questione della riservatezza legata ai dati che corrono sulle nuove tecnologie, 5G in testa. La carne al fuoco, insomma, è parecchia. Anche qui ci sono dinamiche politiche a cui il governo deve prestare grande attenzione. Il centrodestra – e questo segna un punto a suo vantaggio – è unito nell’indicare Ignazio La Russa. I grillini hanno provato ad ampliare i posti di comando, portandoli da 4 a 5, e trasferendo così la competenza dell’elezione del presidente nelle mani del governo. Ma il blitz, portato avanti con un emendamento alla manovra, è stato respinto e quindi la scelta resta in capo a Camera e Senato. Il presidente sarà il più anziano tra i quattro componenti scelti dal Parlamento. La Russa, classe 1947, è in pole. Ecco allora che Pd e 5 stelle hanno deciso di far saltare l’ennesima seduta per l’elezione, in calendario il 19 dicembre, per prendere tempo. Circola il nome di Raffaele Squitieri, presidente emerito della Corte dei Conti, classe 1947, ma tra i dem e i grillini non c’è ancora intesa. 

La deadline più succulenta è quella di marzo-aprile. Lo spartiacque di primavera chiama in causa Enel, Eni, Poste, Terna e Leonardo. Con le assemblee del 2020 andranno infatti rinnovati i cda dei big dell’industria e dei servizi. Sono i pesi massimi dell’economia italiana, in termini di core business, e anche di composizione, essendo tutte o quasi in mano allo Stato attraverso l’azionista di riferimento che è il Tesoro. È tra questi big player che si muovono temi strategici e delicatissimi come l’energia, la sicurezza, la difesa, i servizi. Parliamo di aziende di Stato che hanno un peso enorme sul piano nazionale e internazionale. Tirano in ballo le relazioni con gli altri player mondiali dei rispettivi settori e anche i rapporti tra i governi, tra gli Stati. Posti di massima sicurezza insomma. Anche qui bisognerà trovare una sintesi politica. E questa è una traccia che accomuna tutte le nomine. Nel febbraio del 2014, quando Renzi subentrò a Enrico Letta, l’operazione nomine fu lanciata con un’impronta chiara: ricambio totale e unità di intenti con l’allora ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Nei tre posti chiave del governo per le nomine, cioè palazzo Chigi, Tesoro e ministero dello Sviluppo economico, siedono i rappresentanti di tre diverse sensibilità. Con l’aggiunta dei renziani, che premono e parecchio. Il punto è tutto qui, in questo intreccio ad alta tensione che aggroviglia le nomine e il senso stesso di un governo. 

L’HUFFPOST

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