Elezioni regionali, Conte adesso si sente più saldo: «Sconfitto l’uomo degli slogan»
La sfida non contemplava una tregua, e quando nella notte è parso chiaro che stava prevalendo Bonaccini, Conte ha potuto proclamare «sconfitto l’uomo degli slogan» che pensava di «dare una spallata» all’esecutivo: « E così come ha fatto il presidente dell’Emilia-Romagna governando bene la sua regione, governando bene l’Italia batteremo Salvini e i sovranisti nel 2023. Perché non si guida un Paese attraverso i social». Lo scontro tra i due era obbligato e il risultato emette un primo verdetto: si blinda la legislatura e forse anche il premier, che intanto si cautela annunciando per i prossimi giorni «il confronto con la maggioranza» per una agenda che arrivi fino al termine del quinquennio. Si vedrà se andrà davvero così, se ci sarà ancora lui al termine del percorso, perché non sarà semplice gestire una maggioranza che non è un’alleanza, fare i conti con la grave crisi dei grillini, prosciugati nel loro consenso e marginalizzati alle Regionali, pur essendo ancora il primo partito in Parlamento. Certo, Conte ha evitato di dover ricorrere al «piano B», che in caso di sconfitta prevedeva l’arroccamento a palazzo Chigi. In quel caso un pezzo di Pd avrebbe puntato a una exit strategy: «Perché, avesse vinto Salvini — spiegava un ministro dem ieri notte — non avremmo potuto resistere. Così avremmo fatto la fine dei socialisti francesi».
Ma la mission di questa maggioranza era e resta arrivare all’elezione del capo dello Stato, e dunque l’ala governista del Pd avrebbe comunque cercato un’altra soluzione. Conte sapeva che pur di far durare la legislatura, le forze di governo avrebbero potuto mettere nel conto un rimpasto o addirittura il suo sacrificio. Questo era stato il destino di D’Alema quando da Palazzo Chigi aveva perso le Regionali. Ma allora — al contrario di quanto sostenevano certi analisti smemorati — non si andò al voto, si cambiò il presidente del Consiglio. E arrivò Amato. In fondo era stato questo il senso sottile e ultimo della dichiarazione di Berlusconi, che l’altro giorno in campagna elettorale aveva elogiato il comportamento tenuto da D’Alema. Perché — ecco il punto — nessuno, tranne Salvini, voleva e vuole andare alle elezioni anticipate. Forza Italia e Fratelli d’Italia formalmente sono al fianco del leader leghista ma in realtà hanno altri interessi e obiettivi, e confidano di arrivare al 2023: i primi per tentare di rilanciarsi, i secondi per cercare di consolidarsi. Entrambi puntano a depotenziare il capo del Carroccio, che nel suo campo oggi appare ancora come un dominus incontrastabile.
Ma proprio per questo la sua corsa era e resta solitaria, perciò è stato costretto a trasformare le Regionali in un referendum sulla sua leadership. Salvini sapeva che in caso di sconfitta anche i suoi alleati avrebbero preso a criticarlo, che la linea adottata sarebbe stata sovrapposta a quella perdente del Renzi che trasformò il referendum sulla riforma costituzionale in un plebiscito su se stesso. L’ex ministro dell’Interno vede già i picadores con le loro banderillas, ma non aveva scelta. Anche se la sua strategia di campagna elettorale conteneva una contro-indicazione: esponendosi al punto da monopolizzare l’attenzione su se stesso, avrebbe stimolato una parte di opinione pubblica «in sonno» e a lui ostile. Il rischio c’era, lo ammettevano anche nella Lega: «Magari i compagni si tureranno il naso e andranno a votare». L’alta percentuale di votanti ha testimoniato come i cittadini avessero compreso che la battaglia di Roma si sarebbe giocata sulla «linea del Reno». Ora la lunga marcia di Salvini verso Palazzo Chigi si fa più difficile. E al pari del Pd anche altri festeggiano nel Palazzo, davanti alla sua prima battuta d’arresto. La messe di consensi ottenuta dal Carroccio non inganni: alle Europee il centro-destra era davanti ai suoi avversari. Qualcosa ieri sera è cambiato.
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