Così la passione per il futuro è rimasta schiacciata dalla paura
Le piazze degli ultimi decenni del Novecento — una volta rifluita la violenza degli Anni 70 — anch’essa comunque legata a una narrazione di radicale trasformazione migliorativa del presente — sono state piazze dominate da quel che potremmo definire il «principio speranza». Contrapponendosi al Palazzo, i cittadini manifestavano nelle piazze le loro esigenze misconosciute, le loro aspettative disattese, esprimendo una vigorosa richiesta affinché le loro speranze nel progresso, nel miglioramento delle condizioni di vita, nell’emancipazione dagli ostacoli o dalle catene che lo impedivano, venissero finalmente esaudite. Erano, insomma, piazze magari turbolente, certamente scontente, ma, in ultima istanza, speranzose. Dai loro canti e proteste sprigionava ancora una fervente preghiera rivolta all’avvenire: fa’ che la vita di mio figlio sia migliore della mia.
Con il nuovo secolo il «principio speranza» è stato schiacciato dal «principio paura». Il termine «paura» va qui inteso come sintesi di un’ampia gamma di sentimenti politici che abbracciano la delusione, lo sconforto, lo smarrimento, il senso di sconfitta, di esser stati traditi, di declassamento, fino all’astio, al rancore, alla rabbia vendicativa. A un tratto, le piazze non invocavano più le trasformazioni storiche e politiche ma le temevano. Abbiamo smesso di sperare nel mutamento e iniziato a sentircene minacciati. Il canto delle piazze si è strozzato in urlo. Un urlo che non supplicava più il futuro perché finalmente giungesse a riscattare il presente ma gli intimava di rimanere increato. Non più una preghiera ma uno scongiuro.
Questo progressivo immalinconirsi della coscienza politica dell’intera Europa, questo prevalere delle «passioni tristi», delle pulsioni reattive, sulle «passioni speranzose», sulle spinte progressive, non è uno slittamento nell’immaginario privo di fondamenta nella realtà. Corrisponde, in verità, al conclamarsi della fine di quella straordinaria fase di crescita, progresso ed espansione conosciuta dall’Occidente europeo nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Il «principio Paura» ha una sua radice reale nel declino economico, politico, culturale dell’Europa d’inizio millennio. Un’Europa che si scopre disarmata, avvilita e impotente di fronte alle minacce del mondo globalizzato (in primis l’immigrazione) e persino di fronte a se stessa.
Avviene, allora, una torsione inquietante anche nella tradizionale dialettica tra Piazza e Palazzo. Le piazze cominciano a contrapporsi non più soltanto agli aspetti prevaricatori e autoritari del potere ma alle istituzioni stesse in cui si articola l’esercizio del potere politico democratico. La propaganda dei nuovi leader di stampo populista (a destra ma anche a sinistra e penso all’enfasi sulla «rottamazione») attacca le istituzioni in quanto tali, dipinte come inette, vecchie, corrotte, sobillando nelle piazze una curvatura della Paura che assume i tratti di un vociante disprezzo e sfiducia nei confronti della democrazia. Questa potente, indiscriminata, viscerale ondata di ripulsa nei confronti della «vecchia» politica giunge fino al ritiro della delega di rappresentanza da parte di milioni di elettori. L’altro ieri Angelo Panebianco analizzava sapientemente la crisi di rappresentanza in cui è caduto l’attuale governo da quando il partito di maggioranza ha perso il consenso che aveva nel Paese. Non vi è dubbio, però, che, di là di questo caso specifico, ci sia anche una dimensione epocale, e globale, della crisi di rappresentanza all’interno delle democrazie liberali che coincide con il trionfo del «principio Paura» nelle piazze d’Occidente e con il conseguente, e reiterato, ritiro della delega di rappresentanza da parte di milioni e milioni di elettori. La rapida obsolescenza degli stessi leader che fomentano, a turno, da destra o da sinistra, le «passioni tristi» dell’elettorato, ne è una dimostrazione. Cadono presto vittime dello stesso rifiuto a delegare che hanno alimentato.
La maggioranza silenziosa che per decenni votò i partiti di governo nel primo Dopoguerra è, insomma, divenuta una maggioranza rumorosa. Un popolo impaurito, deluso, risentito, disorientato e declassato che sente di dover gridare in piazze, reali o immaginarie, il proprio allarme, il proprio sconforto, il proprio rifiuto della classe politica del passato, anche prossimo, e, di ogni futuro, prossimo o remoto che sia. Ora, se le cose stanno così, ci si può rallegrare o intristire per i risultati delle elezioni in Emilia a secondo del proprio orientamento ma una cosa appare certa: la sinistra, se per essa s’intende tradizionalmente il portabandiera del «principio Speranza», non è maggioranza nel Paese. Ciò che abbiamo chiamato «Paura» è attualmente, indubbiamente, tristemente, una passione politica più forte della speranza. L’unico possibile futuro della tradizione politica della sinistra progressista è, per l’appunto, di tornare a essere un partito del futuro. Sicuramente non è con una combinazione governativa — e tantomeno con una manovra di Palazzo — che lo si (ri)diventa.
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