Appoggio esterno al governo: ora Matteo Renzi ci pensa
In questo senso è emblematica la foto postata l’altra sera sui social dal presidente del Consiglio, per pubblicizzare il vertice di maggioranza a Palazzo Chigi: si vedono tutti i protagonisti impegnati nella discussione con la penna in mano, circondati da appunti e block notes. Tutti tranne il capo delegazione del Pd, Franceschini, ritratto a braccia conserte e con la sua porzione di tavolo sgombra da fogli: la posa fa intuire che l’origine di ogni problema è (come al solito) politico.
Prendendo a pretesto le divergenze sulla prescrizione e le concessioni autostradali, infatti, Renzi potrebbe decidere di «strambare», manovra tipica nelle regate per chi si trova nel cono di vento delle barche avversarie e deve rimontare. E se è vero che l’ex premier mira a costruire un nuovo centro, è altrettanto vero che in queste ore sta meditando se ritirare la sua delegazione dal governo e annunciare l’appoggio esterno a Conte. Di questa idea c’è traccia nelle analisi che ha svolto nel suo partito dopo il voto in Emilia-Romagna: «Pensavo che la vittoria di Bonaccini portasse il Pd a virare su una linea marcatamente riformista. Se invece andasse dietro ai 5S…». Così Italia viva immagina di rilanciare il suo progetto per arrivare a quel 10% di consensi che rappresenta il break even dell’operazione: per riuscire nell’impresa punta a incrociare sulla sua rotta Azione e +Europa, e scommette in prospettiva sull’avvicinamento di un pezzo di Forza Italia. È un’impresa ad alto rischio, ma non c’è dubbio che se Renzi decidesse di lasciare il governo, indebolirebbe Conte. Nel Pd la mossa era stata preventivata, e nelle discussioni informali c’era stato chi aveva proposto di reagire per «sistemare una volta per tutte la questione» con l’ex segretario. Ma (per ora) è prevalsa la linea di Franceschini, convinto che «non avrebbe senso fare la guerra a Renzi»: con la nuova legge elettorale, infatti, farebbe comodo se Iv riuscisse a costruire un’area di centro sottraendo voti alla destra, perché poi sarebbe «un nostro alleato per il governo».
La ricreazione è cominciata, e aspettando la proporzionale ognuno ha preso a fare il proprio gioco. Anche nell’altro campo iniziano le schermaglie. È una battaglia di posizionamento, e nella maggioranza i nodi programmatici si ingarbugliano con le questioni di potere. In vista di metà legislatura, per esempio, c’è da affrontare la revisione delle presidenze delle commissioni parlamentari, che vanno in scadenza a marzo (al Senato) e a giugno (alla Camera). Cambiata la maggioranza, salteranno i presidenti di commissione leghisti. E per i posti di palazzo Madama il Pd ha fatto sapere ai 5S, non solo che dovranno ridurre i loro incarichi per far spazio ai dem a Leu e al Misto, ma che dovranno anche lasciare alcune presidenze oggi appannaggio del Movimento. Il braccio di ferro è appena iniziato, e non è solo una questione di poltrone. È un problema politico. Altrimenti non si capirebbe perché i democratici siano preoccupati per la richiesta dei compagni di Leu, che vorrebbero alla guida della commissione Giustizia l’ex presidente del Senato Grasso. «È che già dobbiamo accettare come Guardasigilli Bonafede…».
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