La squadra di donne che ha isolato il virus: «Notti al microscopio, poi i salti di gioia»
Maria Rosaria dirige da 20 anni
il laboratorio di virologia dell’istituto nazionale per le malattie
infettive. Altri venti ne ha passati china sui banconi dell’università
la Sapienza dove ha imparato a diventare una virologa «artigiana».
Laureata in genetica umana, specializzata in virologia, decise di
trasferirsi a Roma per realizzare i sogni di ricercatrice e,
soprattutto, per seguire nella capitale Felice Cerreto, l’uomo che ha
sposato nell’80, con il quale ha due figli.
Dice che è merito
suo se è arrivata a questo livello: «Ha tollerato le mie assenze, i
continui viaggi, il ritorno a casa in orari improbabili. Ha capito
quanto fosse importante per me poter coccolare le mie cellule». Già
perché così è. Descritte da questa virologa schiva e poco avvezza a
interventi mediatici i virus sono dei «tipetti» da maneggiare con le
dovute cautele, rispettando i loro tempi di risposta, quasi
vezzeggiandoli con dei trucchetti.
Ha le stesse frasi carezzevoli nei confronti dei suoi perfidi sfidanti Concetta Castilletti, 56 anni,
due figli, orgogliosa di essere ragusana («ho concittadini accoglienti,
come me»), soprannominata «mani d’oro» per la capacità di sfruculiare i
microbi sotto la cappa. Ha alle spalle una famiglia unita che è sua
grande alleata: «A casa sono abituati a vedermi impelagata nelle
emergenze. Non ricordo una vita diversa da questa. È stato sempre così».
Ha l’hobby del basket. Non lo gioca ma con marito e figli si occupa di
una società romana con squadra in serie B e C. Lei accompagna i bimbi ai
campi estivi. Come responsabile del laboratorio virus emergenti,
Concetta ha vissuto l’esperienza della Sars, Ebola, pandemia da H1N1 (la cosiddetta influenza suina), del brasiliano Zika e della chikungunya, il virus trasportato dalla zanzara che due estati fa ha imperversato anche a Roma.
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La più giovane è Francesca Colavita, 30 anni, in squadra da quattro, molisana di Campobasso. Durante l’epidemia di Ebola è partita diverse volte per la Liberia e la Sierra Leone, dove il virus della febbre emorragica ha colpito duramente. Non si è tirata indietro quando si è trattato di partecipare a progetti di sicurezza e cooperazione al termine dell’emergenza in quei Paesi. Allo Spallanzani Francesca ha un contratto a tempo determinato in scadenza. Era lei di turno quando il coronavirus si è infine lasciato isolare: «Che emozione, è stato meno difficile del previsto. Ora mi scusi devo lasciarla, mi chiamano per un’urgenza». Quando c’è stato bisogno di raddoppiare i turni dell’h24 normalmente utilizzato per i test su sospette meningiti, malaria e trapianti, hanno chiamato lei. Non se lo è fatto ripetere due volte.
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