Artico, bolle di metano sotto il permafrost. “I ghiacci si sciolgono e liberano gas”
Esperto artico russo: la condizione del permafrost è critica
Facciamo un passo indietro. Di cosa si parla? 1600 miliardi di tonnellate di carbonio disseminati su un’area di 22.8 milioni di chilometri quadrati. Sono cifre che vale la pena rileggere. Sono le cifre del permafrost nel Mar Glaciale Artico, una delle zone più fredde e inospitali della Terra. Lassù, il cambiamento climatico sta scrivendo un nuovo capitolo della Storia. Enormi quantità di terreno ghiacciato, lontano ricordo dell’ultima glaciazione cominciata nel Pleistocene e terminata 11 mila anni fa, cominciano ora a sciogliersi a causa del riscaldamento globale.
Gli effetti del riscaldamento globale
Basti pensare che la temperatura media annua nel circolo polare artico è passata dai -2°C del 1880, ai circa +1.75°C di fine 2019. Il problema è che quel terreno custodisce una delle maggiori riserve naturali di metano del Pianeta. Questo gas – bloccato nel permafrost – è prodotto dalla decomposizione anaerobica di materia organica: “prevalentemente radici, altre parti vegetali o resti animali che, sotto l’azione degli agenti atmosferici e dei millenni, si sono decomposte e sono rimaste imprigionate sotto strati di ghiaccio profondi fino ad 80 metri”, spiega Kevin Schaefer, del National Snow & Ice Data Center (Nsidc).
“È in atto ma rimane localizzato, per ora”
Cosa sta succedendo di preciso? Per capirlo gli studiosi hanno
utilizzato misurazioni dei flussi di metano atmosferico acquisite
durante la spedizione scientifica internazionale Swerus-C3. Poco meno di
6000 chilometri attraverso il Mar Glaciale Artico percorsi dalla nave
rompighiaccio svedese Oden, partendo dalla città di Tromsø nell’estremo
Nord della Norvegia, per arrivare a Barrow, in Alaska.
Tramite una strumentazione avanzata, il team di ricercatori ha dimostrato l’esistenza di alcuni hotspot
in cui le emissioni di metano mostrano picchi fino a 25 volte più
elevati rispetto alla media ed è riuscito per la prima volta a mapparli
con precisione. Si tratta di aree localizzate perlopiù nei Mari di
Laptev, dei Ciukci e della Siberia orientale. Queste zone sono cariche
di vere e proprie bolle di metano che ‘esplodono'” in atmosfera man mano
che vengono portate in superficie dallo scioglimento repentino degli
strati di ghiaccio che da millenni le tenevano intrappolate. Il fenomeno
prende il nome di termocarsismo ed è un chiaro indicatore del
cambiamento climatico. Secondo gli scienziati tuttavia, non è ancora
rilevante a livello globale: “anche se già considerevoli, questi picchi
di emissione rimangono localizzati in zone poco estese, almeno per ora”,
osserva il professor Kristian Andersson, tra gli autori dello studio.
Il futuro non incoraggia
Come noto il metano è uno dei principali contributori al global warming, secondo solo alla CO2. Potenzialmente si tratta di un gas serra ben 25 volte più efficace dell’anidride carbonica. In poche parole, una molecola di metano trattiene calore e ‘genera’ riscaldamento globale 25 volte più che una molecola di CO2. Ad oggi, la concentrazione atmosferica di CO2 è molto più elevata rispetto a quella di metano (414 parti per milione contro 1870 parti per miliardo), e quindi l’effetto dell’anidride carbonica prevale.
Non sarà così per sempre però. “Non dovremo aspettare 200 o 300 anni per assistere ad un rilascio di metano dal permafrost su larga scala – avverte Katey Walter Anthony, biogeochimica dell’Università dell’Alaska, una delle massime esperte al mondo sul tema – già la mia generazione o al limite quella dei miei figli lo conoscerà. Sta già succedendo, ma ad un ritmo non ancora elevato. Il picco avverrà nel giro di pochi decenni”. Un altro timido segnale di una Natura affaticata, l’ennesimo.
REP.IT
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