Un Paese che non cresce investire, non solo conservare

Un Paese che paga quasi 70 miliardi l’anno in interessi passivi sul proprio debito (a quota 2 mila 421 miliardi a fine 2019 secondo le stime Mazziero Research) non lavora per sé stesso, ma per pagare i suoi creditori. Nessuno se ne preoccupa però. Il contenimento del debito pubblico non è un’emergenza. Lo stesso discorso vale per le clausole di salvaguardia che ogni anno, per essere disinnescate, si portano via i due terzi della manovra di bilancio, rendendola di fatto poco influente ai fini della crescita. Sono tasse future. C’è, dunque, un invisibile nodo scorsoio intorno al collo del Paese. Ma lo indossiamo come fosse un’elegante cravatta.

Perché non cresciamo, dunque? Anzi, secondo gli ultimi dati Istat, abbiamo già un’eredità negativa dello 0,2 per cento nel 2020. Per ora andiamo indietro. Una risposta convincente la si trova in una recente analisi del centro studi Ref, a cura di Barbini, De Novellis, Ferraris e Paolazzi. In Italia, nel periodo 2017-19, gli investimenti pubblici netti sono stati negativi. Ciò significa che non sono bastati nemmeno a compensare il deprezzamento del capitale esistente. Per essere chiari, non si parla dei soldi di chi li ha, ma dei beni produttivi del Paese. È come se accettassimo di veder andare in rovina la nostra casa pur di non fare le migliorie necessarie per renderla più sicura, ecologica, confortevole. Il declino degli investimenti, senza i quali si sega il ramo sul quale siamo seduti, è ancora più evidente se si confrontano tre periodi. Negli anni Novanta e nel primo decennio di questo secolo il flusso cumulato degli investimenti era positivo in Italia: in media pari al 5 per cento del Prodotto interno lordo (Pil). Negli anni Dieci è stato invece negativo. Con un decremento quasi vicino al 5 per cento del Pil. La spesa corrente spiazza quella in conto capitale. Si investe poco, si cresce poco. Nell’ultimo Rapporto sull’economia globale e l’Italia, a cura di Mario Deaglio, si parla senza mezzi termini di «sciopero degli investimenti».

Ma spostiamoci sugli investimenti diretti dall’estero. Ne abbiamo meno dei nostri concorrenti, secondo i dati Abie-Confindustria. Lostock è pari al 21 per cento del Pil contro il 41 per cento della Spagna. Il flusso è rimasto stabile intorno ai 23 miliardi l’anno negli ultimi cinque. Erano 34 miliardi nel 2011. Il 63 per cento dei dipendenti delle imprese estere — che attivano un quarto delle nostre esportazioni e quasi metà dell’import — è concentrato in cinque regioni (Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto). Gran parte dei flussi annuali degli investimenti esteri è assicurata da gruppi presenti in Italia da almeno 50 anni. Che cosa vuol dire questo? Una sola cosa: che quando sono inserite stabilmente in un solido tessuto socioeconomico diminuisce l’interesse a delocalizzare sulla base dei semplici costi di produzione. Perché si perderebbero conoscenza, abilità tecniche, cultura e buone relazioni sociali, cioè capitale umano. Al contrario chi è arrivato da poco o progetta di venire a investire e produrre in Italia non accetta di sostenere il rischio dell’incertezza delle leggi e dei contratti, la lentezza della giustizia. Non si capacita del perché un grande Paese industriale conservi un residuo ideologico anti-impresa, contrasti le grandi opere e sottovaluti il legame tra infrastrutture e produttività. Le aziende italiane che innovano ed esportano non sono mai andate bene come oggi. Hanno grandi margini, comprano all’estero. Ma una parte non piccola delle famiglie imprenditoriali è tentata di tirare i remi in barca, smettere di investire e vendere. Conviene. Il successo italiano del mercato dei private equity, dei fondi che subentrano agli azionisti e imprenditori, ne è una dimostrazione.

Ora il governo si è impegnato a rilanciare gli investimenti, soprattutto per sostenere quelli verdi, legati alla sostenibilità, sfruttando al massimo i fondi europei. Bruxelles ha aperto una consultazione per rivedere (forse) le strette regole di bilancio che hanno depresso gli investimenti in conto capitale anche in altri Paesi oltre il nostro. I margini appaiono molto stretti. Fanno bene Matteo Renzi e Italia viva a sollecitare un piano choc per sbloccare i cantieri fermi e promuovere interventi per 120 miliardi in tre anni. La ministra per le Infrastrutture e i Trasporti Paola De Micheli ha detto a Cartabianca: «Abbiamo 200 miliardi per le infrastrutture nei prossimi 15 anni, spendiamoli». Senza trascurare però che i soldi non sono nascosti in un cassetto. Non esistono scatole magiche, né tesoretti. E per fare un buon investimento non basta trovare le necessarie coperture. Servono progetti, competenze, amministrazioni attente ed efficienti. In poche parole quel capitale umano, fatto anche di coraggio e visione, che non si crea emettendo titoli di Stato, attività sulla quale non abbiamo rivali al mondo.

CORRIERE.IT

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