Egitto, « Zaki sequestrato e picchiato per farlo parlare di Giulio Regeni»
DAL NOSTRO INVIATO
MANSURA (Egitto) — Sei
croci, due Cristi sanguinanti, un’icona che lacrima, un San Giorgio che
infilza il Drago, un Nazareno formato vetrata, l’arazzo d’una Vergine
assorta, sette ceri, due Marie sofferenti. «Siamo cristiani. Che cosa
possiamo fare? Preghiamo». L’altro calvario di Patrick Zaki,
al quinto giorno di passione nelle segrete della polizia di Mansura,
crocifisso come un ladrone di libertà, il vero supplizio è il pensiero
che va costante dalla sua cella a questo tinello verde-niente-speranza
in Omar Ibn el Khattab Street, una ventina di minuti dal lungodelta,
pieno d’immagini celesti e d’incubi terreni.
Paura
Al primo piano a sinistra si squadernano gli album delle vecchie foto come si fa per i lutti, si ricordano gli anni belli tutt’insieme al Cairo, l’inutile laurea in farmacia di Zaki all’università tedesca e poi la curiosità per le scienze umane che l’ha portato a Bologna, il sogno un giorno d’insegnare in università. Si prova a reggere il dolore: «Più che per sé, mio figlio è preoccupato per noi — racconta l’ingegner George Michel, 55 anni, direttore vendite d’una fabbrica di macchinari — . Ha paura di quel che stiamo passando. Di quanto sta soffrendo sua madre…». In mano un rotolo di carta igienica per strapparne fazzoletti, incurvata su una sedia e in un silenzio dove le parole diventano singhiozzo, Hala Sobhy Abdelmalek, 52 anni, racconta il suo Kuki — «lo chiamiamo così» — e rifà memoria della vita di prima: «Ogni suo istante è un segno per me. Dall’Italia, ci sentivamo anche tre volte al giorno. Lui a raccontarmi tutto, io ad ascoltarlo. Gli sono sempre stata addosso, sono fatta così. Kuki ci rideva, quando studiava a casa: mamma, uffa, mi sembra d’essere all’asilo…».
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