Egitto, « Zaki sequestrato e picchiato per farlo parlare di Giulio Regeni»

La nostra tortura

Adesso, George e Hala non riescono nemmeno a immaginarsi le notti là dentro: «Ce l’hanno fatto vedere domenica. Lo rivediamo giovedì. Solo dieci minuti in parlatorio, assieme agli altri detenuti, presente un agente di polizia. Gli abbiamo portato acqua, patatine, pane, succo, formaggi, tutta roba in contenitori di plastica, niente tonno perché è nelle scatole di metallo. Lui non fuma, ma gli abbiamo portato le sigarette: in carcere, sono una moneta di scambio». Una sofferenza: «La sua, la nostra. Sul fisico non ha molti segni, ma onestamente non sappiamo dire che cosa sia successo davvero: non ha potuto darci i dettagli di quel che gli hanno fatto. E’ bene che sia vivo, ma poi? E’ un ragazzo forte, però questa situazione è pesante, sa che cosa rischia, è psicologicamente provato». L’hanno torturato coi cavi elettrici… «La nostra tortura è quel che sta succedendo. Quest’attesa, senza sapere che cosa ne faranno. Se non c’è nulla a suo carico, che lo facciano uscire e basta!».

«Non ha fatto del male a nessuno»

Non è facile. Attenti a non sbagliare. I genitori di Zaki pesano i sospiri, sanno che tutto verrà letto e spiato, danno in rete un comunicato scarno e accettano d’incontrare solo la stampa italiana, «coi media egiziani non vogliamo parlare»: nel tinello ogni dichiarazione è un consulto con l’avvocato, con un amico di famiglia, con la figlia Murise, 24 anni e un posto in banca, l’unica a sapere l’inglese. Nulla da dire sulle tv governative che accusano Zaki per le sue ricerche bolognesi nel mondo omosex, un reato da queste parti: «Vogliono solo sfruttare la situazione e parlano di cose che non sanno…». Meglio chiarire che il ragazzo non è un incosciente: «Difende le sue libere opinioni, ma conosce bene i limiti. Chiaro, eravamo un po’ preoccupati del suo impegno civile, sapete come sono i giovani, hanno la loro mentalità. Però, quando vedevamo che amava quel che faceva, lo lasciavamo libero». Sempre da ripetere che «siamo una famiglia pacifica, nostro figlio non ha fatto nulla di sbagliato e non è mai stato una minaccia o un pericolo per nessuno, anzi: ha sostenuto e aiutato molta gente». Che cosa sia successo in aeroporto, un mistero: «C’era una denuncia di settembre e lui non ne sapeva niente. L’hanno fermato per quello, per i post su Facebook». E per le sue domande sul caso Regeni: «Gli hanno sequestrato tutto: documenti, occhiali, vestiti, passaporto, telefonino, laptop, tesserino universitario. L’hanno interrogato illegalmente per trenta ore. E poi, sì, gli hanno chiesto anche dei suoi legami con la famiglia di Giulio Regeni». Li conosce bene? «Dal 2016, di quel ragazzo italiano si parla su tutti i social media e anche Patrick conosceva il caso, se n’era interessato». Un legame di famiglia, con le cose italiane: «Sa che un bisnonno di Patrick lavorava all’ambasciata italiana al Cairo?». Quindi è una carta da usare… «Hanno parlato i suoi amici di Bologna, incredibile quanti ne ha dopo cinque mesi. Dal governo italiano, invece, non s’è ancora fatto vivo nessuno. Speriamo che almeno la Chiesa, in Vaticano si preghi per noi». Domani ci sarà un’altra visita in carcere: «Portiamo a Patrick i libri. Ha chiesto di studiare, vuole essere pronto per gli esami di marzo. La nostra speranza è questa sua forza».

CORRIERE.IT

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