Sicurezza, un’Europa in cerca di difesa

Tutti hanno detto «sì» ma ognuno si regola come vuole, la tregua e lo stop ai rifornimenti militari sono rimasti concetti in gran parte astratti, si parla anche in Italia di «missione europea» senza precisarne il ruolo e senza valutarne le necessarie premesse, restano inevasi interrogativi come quello che riguarderebbe Misurata (dove c’è un ospedale italiano protetto da forze italiane) nel caso il cirenaico Haftar decidesse di attaccarla, e le linee del confronto militare disegnano di fatto una spartizione della Libia che nessuno dichiara di volere.

Se la Libia è un assaggio delle potenzialità di una nuova sicurezza europea, il meno che si possa dire è che resta moltissimo da fare. Ma sul tavolo dell’Europa prossima ventura non c’è soltanto la Libia. C’è, anche, quel Boris Johnson che ha appena celebrato la parte più facile della Brexit e si prepara a una guerra negoziale con Bruxelles su quella più difficile. Non solo, perché resta da scoprire quale sarà la politica estera di Johnson. Quella nazionale e spesso vicina all’Europa esibita in tema di Huawei e 5G, oppure quella appiattita sugli Usa (i precedenti non mancano) mostrata pochi giorni dopo elogiando, nell’imbarazzo degli altri alleati, il «piano del secolo» di Trump sul conflitto israelo-palestinese? L’interrogativo è cruciale, perché gli europei vorrebbero mantenere inalterata, se non allargare, la collaborazione con Londra in tema di sicurezza e di difesa. Cosa che potrebbe non piacere a Washington, particolarmente in campo industriale. C’è la nevrosi politica tedesca davanti al declino dei partiti tradizionali e della cancelliera Merkel, che si traduce in un indebolimento dell’intero progetto europeo.

E poi c’è la Francia, diventata grazie al divorzio con Londra l’unico Stato europeo a possedere un seppur modesto arsenale nucleare. Cosa intendeva Emmanuel Macron quando nei giorni scorsi si è detto disposto ad associare altri Paesi europei al potere deterrente della Force de frappe? L’Eliseo ha respinto un suggerimento venuto da un parlamentare tedesco volto a porre le forze atomiche transalpine sotto comando Ue o Nato, ma se esiste davvero una via alternativa da mettere al servizio dell’autonomia strategica dell’Europa, fin dove vorrà e potrà spingersi un Macron che alle ultime europee ha soltanto pareggiato con Marine Le Pen e che tra poco dovrà affrontare una nuova campagna presidenziale? Di certo le parole del capo dell’Eliseo hanno fatto risuonare un campanello in molte cancellerie europee a cominciare da quella di Berlino, e le prospettive della mezza apertura di Parigi sembrano migliori, e soprattutto meno divisive, del coinvolgimento della Russia sollecitato da Parigi.

L’Italia, se non fosse per l’industria della difesa che di norma difende bene occasioni e interessi, brillerebbe per la sua assenza da un simile dibattito. Indipendentemente dalla sorte futura dei progetti europei, si tratta di un errore non nuovo che soltanto in parte può essere giustificato dalla demagogia propagandistica e dalle liti permanenti che caratterizzano la nostra politica interna. A mancare è una consapevolezza fondamentale, che la pace si difende con una valida struttura di sicurezza, non con l’arrendevolezza, la vulnerabilità o l’incertezza dei trattati. Anche perché così si lascia spazio a una non nuova suggestione di certa destra americana, secondo cui l’Italia starebbe meglio rompendo con l’Europa e assumendo, con l’aiuto Usa, una ipotetica quanto poco probabile leadership nel Mediterraneo. Come dirci che continuiamo a essere il ventre molle dell’Europa, quello che più facilmente può essere allontanato dai suoi veri interessi nazionali.

CORRIERE.IT

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